Bianco, maschio, agiato: è su questo modello che è disegnata la medicina. Lo ha dimostrato una volta di più una ricerca pubblicata in questi giorni sul Journal of the American Medical Association Internal Medicine, secondo la quale i saturimetri funzionano male su neri e ispanici, facendo risultare il loro sangue più ricco di ossigeno di quanto non sia realmente e alterando la valutazione della gravità dei pazienti, con la conseguenza che durante la pandemia le persone appartenenti alle minoranze hanno subito una disparità di cura e, mentre a causa del Covid tra i bianchi l’aspettativa di vita è calata di circa un anno, tra i neri e gli ispanici gli anni di vita persi sono stati addirittura tre. Tutto ciò succede da sempre anche alle donne, che sono la metà della popolazione mondiale, sistematicamente ignorate e escluse dai test e dagli studi medici, che non le considerano nella loro differenza, esponendole a rischi che possono costare loro la vita. Fino a una decina di anni fa, ad esempio, nessuno aveva realizzato che le donne presentano un quadro clinico dell’infarto miocardico diverso rispetto a quello degli uomini, considerato “normale”, universale: le conseguenze potete facilmente immaginarle. Le donne, insomma, non esistono, sono invisibili: non ci sono nei talk show, nei tavoli decisionali, nei libri di testo, nel linguaggio quotidiano. Un vuoto che rende la società più povera e le città meno inclusive, meno a misura di tutte e di tutti, per non parlare di come fa sentire le donne stesse: inadeguate, estranee, di troppo.
È per questo che le autrici di “Pratiche per una salute mentale di genere” (Vita Activa Edizioni), presentato qualche settimana fa al Salone del Libro di Torino e oggi pomeriggio alle 16.00 a Roma alla Casa Internazionale delle Donne (via della Lungara 19) in occasione di Femism Fiera dell’editoria delle donne, hanno deciso di raccontarsi, perché «finché il mio essere donna restava taciuto, non mediato, c’era sempre un’insicurezza profonda», come dice Luisa Muraro citata da Valentina Botter, una delle curatrici assieme a Sergia Adamo e Marina Barnabà.
La salute, ancor di più la salute mentale, non è solo questione di malattie, ma è il risultato dei così detti determinanti sociali, che sono il livello d’istruzione, il reddito, l’occupazione, l’ambiente in cui si vive e si lavora quotidianamente, la rete di relazione: lo dice con sempre più convinzione l’OMS, ma lo aveva affermato con forza Franco Basaglia, invitando a rimettere al centro delle cure la persona e la sua dignità e a mettere la malattia tra parentesi, perché «il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità». È sulla scia di questa convinzione profonda che a Trieste, patria della rivoluzione basagliana, nascono dopo la chiusura dei manicomi tutta una serie di servizi e di realtà che si prendono cura delle persone nel senso più vero del termine “attraverso partecipazione emotiva e complicità”, come affermò qualche anno più tardi Assunta Signorelli, una delle sue allieve, che prestò sempre particolare attenzione a quelli che potremmo definire gli aspetti indiretti della cura come l’ambiente circostante, i mobili, i colori, l’organizzazione degli spazi, facendo il possibile per accorciare le distanze tra medico e paziente e preoccupandosi in primo luogo di rispondere ai reali bisogni della persona che soffre.
E rispondere ai bisogni reali significa in primo luogo prendere coscienza che «il genere è un fattore rilevante e incidente sulle disuguaglianze di salute», come affermano Marina Barnabà e Anna Stavro nel contributo che apre il libro. Il malato, verrebbe da dire, non è solamente un malato, ma un uomo o una donna con tutte le sue necessità. Necessità di cui cercano di farsi carico i servizi articolati presenti sul territorio, la cui forza, come racconta Francesca Bertossi, sta nello sguardo di chi guarda la persona che chiede aiuto, nella sua capacità di non ridurre questa domanda all’analisi di un sintomo in cui la persona scompare, nella presa in carico in modo collegiale («La malattia mentale» diceva Signorelli «è qualcosa che possiamo affrontare solo come équipe e come rete nel senso di rete di risposte che devono prevedere una serie di cose»), nel tener conto del genere come approccio alla complessità, sapendo che per fare una pratica di genere non basta offrire uno sportello dedicato alle donne, perché una questione così complessa non può chiudersi in un pur importante elemento organizzativo. Occorre tener conto di tutti quegli elementi che rappresentano fattori di rischio per la salute psichica ormai universalmente riconosciuti, come ci ricorda Valentina Botter: il gender gap, le discriminazioni di genere, la violenza subita, il diverso carico di lavoro intra ed extra familiare. Perché le donne si ammalano per lo più di questo e non è prescrivendo psicofarmaci che le si aiuta davvero, farmaci peraltro studiati sull’invarianza maschile, mentre è ormai noto e acquisito che il corredo ormonale femminile è diverso in diversi momenti della vita (infanzia, adolescenza, gravidanza e puerperio, allattamento, menopausa). Occorre — scrive sempre Botter — reclamare, pretendere una ricerca scientifica sessuata, diagnosi sessuate, consulenze sessuate, prescrizioni sessuate, diritti sessuati. Ma occorre soprattutto stare accanto, guardando alla soggettività, valorizzando le specificità e le differenze, cercando di smussare, se non è possibile eliminarle del tutto, anche le problematicità di ordine sociale ed economico che determinano la malattia mentale, aggravandone le condizioni, come afferma Silva Bon, che nel suo contributo descrive la storia dei luoghi delle donne nel Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, unica in Italia nel suo percorso di genere. E occorre garantire spazi al femminile, autonomi, dove creare relazioni tra donne. È l’esperienza dell’associazione Luna e L’Altra, nata nel 1990 per dare sostegno alle persone fragili in un rapporto alla pari, di cui parla Tiziana Giannotti, che sottolinea il valore che ha per chi è particolarmente fragile la possibilità di avere a disposizione una serie di trattamenti in ambienti liberi da ogni etichetta sanitaria, dove trovare qualcuno disposto ad ascoltare, magari bevendo un tè. A volte — dicono alcune delle donne accolte — è l’unico motivo per alzarci e uscire di casa con grande fatica e rientrare più serene, anche se sappiamo che il giorno dopo la lotta ricomincerà. «L’ascolto» continua Giannotti «è forse il bisogno più sentito tra le donne fragili. Hanno sempre bisogno di raccontarsi, sul presente, ma anche sul loro passato. Tutto questo va sviluppato in parallelo sulla parte pratica che comporta l’attivazione di tutta una serie di percorsi personalizzati. Si potrà trattare di percorsi di sostegno all’abitabilità individuale, di sostegno alla genitorialità, di formazione scolastica, di allontanamenti temporanei, di contrasto ai rischi di esclusione sociale, di sostegno al riavvio occupazionale, di affiancamento al compito di caregiver familiari e molto altro.» Si tratta della promozione dei diritti fondamentali, quelli per cui molte donne a Trieste e non solo si sono battute perché — come scrive Tea Giorgi, che all’incontro con l’esperienza basagliana deve la sua trasformazione da femminista solitaria e silente in femminista attiva — l’articolo 3 della Costituzione non sia una vuota enunciazione di principio.
Un libro nato da «un bisogno evidente di narrare, di raccontare, di dare la forma di una storia intellegibile e riconoscibile a ciò che viene qui preso in considerazione», scrive Sergia Adamo, ma «non per circoscrivere e chiudere il pensiero che azioni ed esperienze creano. In questo caso la narrazione sembra proprio essere uno spazio di assunzione di rischio e di presa d’atto della vulnerabilità che consente di porre domande sempre nuove.» Un libro dunque assolutamente da leggere, ma soprattutto da continuare a scrivere tutti insieme.
(Sergia Adamo, Marina Barnabà, Francesca Bertossi, Silva Bon, Valentina Botter, Silvana Cremaschi, Letonde Hermine Gbedo, Tiziana Giannotti, Tea Giorgi, Elisabetta Paci, Annalisa Saba, Anna Stavro, Paola Zanus Michiei, “Pratiche per una salute mentale di genere. Appunti per un manuale”, Trieste, Vita Activa Edizioni, ottobre 2021, pagg. 226, euro 16,00)