Le industrie tornano a casa. Addio alle delocalizzazioni. La globalizzazione dell’economia ha avuto un primo duro colpo nel 2020, con lo scoppio del Covid. Il secondo colpo è arrivato nel 2022 con la guerra in Ucraina. È stato risolutivo: ha fatto crollare tutto il gigantesco castello della globalizzazione lanciata da Bill Clinton dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica nel 1991.
In fortissima sofferenza, per esempio, è andata l’industria automobilistica. I microchip sono arrivati e arrivano con il contagocce, così la produzione crolla. Carlos Tavares è corso ai ripari capovolgendo la precedente politica di delocalizzazione della produzione: «Entro 3-4 anni avremo fornitori locali, in Europa e negli Usa, per i semiconduttori». L’amministratore delegato di Stellantis ha deciso di invertire la rotta perché la carenza di semiconduttori ha causato la pesante caduta della produzione di auto del gruppo italo-franco-americano.
Stellantis non è un caso isolato. Anche le altre case automobilistiche europee e statunitensi sono state costrette a tagliare la produzione per carenza di semiconduttori. Le componenti elettroniche delle autovetture hanno un peso sempre maggiore ma le importazioni dalle fabbriche (ubicate soprattutto nell’Estremo oriente) hanno fatto flop. Il crollo delle forniture è avvenuto per due motivi: 1) il forte aumento della domanda di semiconduttori per la rivoluzione tecnologica trainata dal passaggio dai motori termici a quelli elettrici; 2) la guerra in Ucraina e il Coronavirus hanno causato una semiparalisi del commercio nel pianeta.
Le industrie dell’auto europea e statunitense hanno rischiato di affondare, così è partito il contrordine: basta con le delocalizzazioni. Stellantis e gli altri gruppi occidentali puntano ad avere “in casa” le fabbriche per costruire le batterie per i motori elettrici e i semiconduttori essenziali per tutto il “cuore elettronico” delle vetture di nuova generazione.
Adesso, invece, sia gli impianti per costruire le batterie sia quelli per i microchip sono dislocati lontanissimo, soprattutto in Cina e a Taiwan. La delocalizzazione delle fabbriche decisa negli anni Novanta in Estremo oriente o nell’Europa dell’est si è rivelata un clamoroso errore per due motivi: 1) i costi di produzione in quei paesi sono fortemente saliti; 2) la “febbre” nei rapporti internazionali con le nazioni occidentali (come nel caso della Cina minacciosa verso Taiwan) ha messo a rischio tutta la catena produttiva messa in piedi con la globalizzazione.
La guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina e le forti tensioni politiche scattate tra Xi Jinping e Joe Biden hanno portato a un ripensamento della globalizzazione. L’azione senza confini della finanza, del commercio e dell’industria è stata archiviata. Ora c’è un braccio di ferro sui nuovi equilibri internazionali. L’Occidente punta a una indipendenza produttiva ed energetica. Stati Uniti, Europa, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Taiwan puntano a una sorta di autosufficienza dalla Cina e dalla Russia: Pechino è temuta per il suo potenziale tecnologico e industriale (conseguiti proprio grazie alla globalizzazione), Mosca per le sue grandi riserve di materie prime (petrolio, gas, minerali, cereali).
Così addio alle delocalizzazioni. L’obiettivo è l’indipendenza tecnologica e produttiva. Le grandi multinazionali riportano le industrie a casa ed investono dentro i più sicuri confini occidentali. Il colosso informatico statunitense Intel ha deciso di investire ben 80 miliardi di euro in Europa (in particolare in Germania, non dimenticando l’Italia) per produrre semiconduttori. Ma anche il gigante Tsmc di Taiwan, forse impensierito dalle minacce di una invasione cinese, progetta degli investimenti in Europa. In particolare vorrebbe investire 10 miliardi di euro: la scelta oscilla tra la Germania e l’Italia.