C’è una domanda che occorre necessariamente porsi: qual è il vero destino dell’ex numero due del patriarcato di Mosca, il metropolita Hilarion, già autorevolissimo responsabile delle relazioni estere moscovite e ora non più neanche nel sinodo della Chiesa ortodossa russa, il patriarcato di Mosca e di tutte le Russie, visto che svolge il suo nuovo servizio all’estero, a Budapest?
Tutti hanno scritto, perché è stato così, che ha incarnato il no alla guerra: la sua linea moderata sul conflitto, la sua idea di una guerra troppo pericolosa per il futuro della stessa esistenza o sopravvivenza della Federazione Russa ne ha determinato il nuovo ruolo, marginale. Ma come?
La prima teoria è che lui stesso potrebbe essere stato indotto a cercare l’esilio della lontananza, ad andarsene a Budapest. In questa interpretazione Hilarion infatti potrebbe trarre vantaggio dall’allontanamento. Stare lontano da Roma (Mosca per molti sarebbe la Terza Roma, si sa) lo potrebbe aiutare a tornare quando i “santi padri” dovranno metaforicamente andare a Canossa, a genuflettersi davanti a lui. In questo scenario sarebbe intervenuto il duo “Kirill-Putin”: intanto Hilarion da rimosso vada a Budapest, dove governa l’amico Orbàn. Da lì può viaggiare, a differenza dello stesso Lavrov, tenere contatti, sempre utili se la situazione dovesse divenire troppo complessa, pericolosa. Insomma l’ipotesi presenterebbe uno scenario con due varianti: Hilarion è stato allontanato, forse con intelligenza. Il nuovo uomo forte è il suo successore, Antony, un fedelissimo del patriarca Kirill (per alcune voci malevole un “figlio” per il patriarca), ma Hilarion sarebbe una riserva, allontanato ma pensando a possibili utilizzi. Se il tempo volgesse a tempesta, Hilarion potrebbe mediare da Budapest, che è pur sempre in Europa, e magari tornare? La teoria dell’Hilarion che si allontana, quasi come un nuovo Cincinnato per capirsi, si radica nella lettura della sua dissidenza dal conflitto. Sarebbe cioè la scelta sia sua, che non vuole prendersi le colpe di altri, sia degli altri (Putin e Kirill) che allontanandolo ipotizzano una sua utilità “residua”, da grande riserva.
Ma l’inizio del suo siluramento potrebbe essere molto diverso. Tutto comincerebbe non con la guerra, ma con la più grave conseguenza di essa, verificatasi il 27 maggio. Quel giorno il sinodo della Chiesa ucraina fedele a Mosca ha “rotto” le sue relazioni con il patriarca comune, Kirill, con il quale si è dichiarato in totale disaccordo proprio sul conflitto. Due giorni dopo da Mosca è arrivata una risposta sorprendente, molto conciliante. Il sinodo moscovita, lamentando semplicemente che il patriarca Kirill non fosse più ricordato nelle preghiere degli ortodossi fedeli a Mosca di Kiev, ha fatto sapere che avrebbe comunque valutato le novità che emergevano dal punto di vista canonico in base alla Carta accordata dal predecessore di Kirill, Alessio II, a Kiev. Nulla di più.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire quello che ha spiegato pubblicamente di lì a breve, a nome del sinodo, proprio Hilarion. La Chiesa ortodossa fedele a Mosca di Kiev gode infatti di uno statuto di autonomia da Mosca accordatogli dal patriarca Alessio II, il predecessore di Kirill; questo ha rivendicato Kiev e quindi, ha spiegato Hilarion a nome del sinodo che aveva in tal senso deliberato, non c’era nessuna rottura. Solo la necessità di regolare come attuare l’autonomia di Kiev nel nuovo contesto. Questa dichiarazione è stata rilasciata da Hilarion dopo il sinodo: spiegazione coerente con le decisioni appena assunte ufficialmente dallo stesso sinodo.
Il professor Antoine Courban, uno dei massimi esperti di mondo ortodosso, ha spiegato che la logica della moderazione sinodale è molto evidente: non la politica, ma i fedeli la determinerebbero. Una rottura con Mosca della Chiesa ortodossa di Kiev fedele a Mosca sarebbe esiziale: «Molte parrocchie in tutto il mondo, con una forte diaspora ucraina, potrebbero presto lasciare Mosca e unirsi a Kiev. In altre parole, questi accordi giurisdizionali ecclesiastici hanno un’importante ripercussione politica nella misura in cui costituiscono una breccia nell’edificio ideologico del Russkii Mir (Mondo russo), la pietra angolare della geostrategia eurasiatica dell’attuale padrone del Cremlino. La rottura con Kiev è un trauma doloroso per l’anima russa. È come la rottura di un cordone ombelicale. “Cosa siamo senza Kiev se non tataro-mongoli?”, ripetono spesso i grandi patrioti russi».
Siamo nell’imbuto: salvare il patriarcato di Mosca e di tutte le Russia per salvare la sua anima, ma nell’articolazione dell’autonomia, lasciando l’ideologia. Questa era la scelta, ufficiale, del sinodo. Il licenziamento di Hilarion indica allora che il patriarca è Putin? L’ideologia, o teologia politica, del “mondo russo”, è stata sì imposta da Kirill, da quando è stato eletto patriarca capovolgendo la visione del suo predecessore, Alessio II. Ma ora la scelta di Kiev, della parte di Kiev rimasta fedele a Mosca, obbliga il sinodo a ripensare. E come non farlo?
Se questo è il caso, come sembra, la corruzione della formula della sinfonia dei poteri (spirituale e temporale) che ha portato il patriarcato di Mosca ad abbracciare la teoria imperiale del mondo russo con Kirill, come non era con Alessio II, che infatti aveva accordato lo statuto autonomo a Kiev, andava seppur parzialmente abbandonata. E il sinodo russo, senza dare nell’occhio, lo stava facendo. Ma Kirill probabilmente si è spinto troppo avanti, non ha più alcun margine negoziale con il Cremlino.
Se questo fosse il senso di quanto è accaduto, Hilarion non avrebbe scelto di allontanarsi, ma sarebbe stato costretto davvero all’esilio da Putin, perché i padri sinodali e lo stesso Kirill devono capire che non ci sono più altre vie. Il dado, questo il messaggio del Cremlino, è stato ormai tratto: il patriarca si è spinto così avanti da non poter chiedere o implorare alcuna autonomia. Dunque il patriarca ora è Putin? In questo quadro il sinodo avrebbe dovuto piegare la testa: “Se si vince si vince insieme, se si affonda affondiamo tutti”. Ha senso in questo scenario parlare con Kirill?
Le due letture sono entrambe possibili ma a me sembra evidente che politica e religione a Mosca si sono ammalate della stessa malattia, insieme. Sperare di curare la politica con Kirill, se fosse vero il secondo scenario, sarebbe impossibile. Sarebbe solo la politica – cambiando – a poter curare la religione, non impedendole più di tornare alla visione di Alessio II.
Foto: Aleksey Nikolskyi / Sputnik via AFP.Patri