Si moltiplicano le spinte su Putin per una pace. Mosca continua a bombardare gli obiettivi militari e le città ucraine, Kiev resiste e contrattacca. Tuttavia si moltiplicano le pressioni sullo “zar” per un cessate il fuoco.
Giovedì 6 maggio può diventare una giornata importante per porre fine alla guerra. Volodymyr Zelensky tenta la strada di un compromesso di pace. Sollecita le truppe russe a ritirarsi «sulle posizioni del 23 febbraio», quelle precedenti all’invasione di Mosca scattata il 24 febbraio. Il presidente ucraino lascia intendere che non pretenderebbe la restituzione della Crimea perduta nel 2014. Stesso discorso varrebbe per la parte del Donbass, sottratta al controllo di Kiev sempre nel 2014, dalle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk. Precisa: «Da parte nostra non tutti i ponti diplomatici sono stati bruciati». E’ un nuovo passo verso una mediazione (a marzo si era detto pronto a rinunciare all’ingresso nella Nato).
Aleksandr Lukashenko, sempre giovedì 6 maggio, getta un altro ponte verso un accordo di pace. Il presidente bielorusso, il più fedele alleato di Putin, scandisce: «La guerra si sta trascinando da troppo tempo». Contraddice il presidente russo usando la parola «guerra» bandita invece dallo “zar”, che ha imposto la dizione di «operazione militare speciale». Lukashenko avverte: «L’utilizzo di armi nucleari in Ucraina sarebbe inaccettabile». Un chiaro segnale inviato al Cremlino che in più occasioni ha adombrato il possibile ricorso all’arsenale atomico russo.
Altre spinte per un dialogo sono arrivate dalla Cina. Xi Jinping, che pure ha firmato con Putin la dichiarazione di una “alleanza senza limiti”, si è parzialmente smarcato dallo “zar”. Il presidente cinese più volte, pur criticando la Nato, ha invocato trattative di pace. Qualche giorno fa è arrivato un altro segnale. L’agenzia stampa cinese Xinhua ha pubblicato in contemporanea, su un piano di parità, le interviste a Sergej Lavrov e a Dmytro Kuleba, i ministri degli Esteri del paese aggressore e di quello aggredito. Anche Kuleba usa il termine «guerra», parola particolarmente indigesta al Cremlino. Ha invitato la Cina a lavorare per «il cessate il fuoco, la fine dell’aggressione». Ha chiesto a Pechino di diventare «uno dei garanti della sicurezza dell’Ucraina» assieme ai paesi occidentali, in testa gli Stati Uniti.
Il presidente francese Macron e il presidente del Consiglio Draghi, pur inviando armi all’Ucraina e varando sanzioni contro la Russia, insistono per un accordo: la pace «è l’obiettivo principale».
Ora la parola passa a Vladimir Putin. Il 9 maggio, festeggiando la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista nel 1945, dice la sua. La scelta è tra accordo e guerra totale. Dal Cremlino filtrano indiscrezioni sulla volontà dello “zar” di reclamare anche i territori costieri conquistati nel sud dell’Ucraina, in particolare Mariupol e Kherson.
Papa Francesco più volte ha invocato lo stop ai massacri. Ha detto: «Fermatevi!». A Kiev ha mandato dei suoi delegati, non è voluto andare personalmente: «Io prima devo andare a Mosca». Vuole recarsi prima nella capitale russa perché lì sono le chiavi della pace. Ha osservato: «Se Putin aprisse la porta…». Finora lo “zar” non ha considerato maturi i tempi per un viaggio di Papa Francesco a Mosca.