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Se n’è andato a 108 anni Boris Pahor, ultimo grande testimone del Novecento

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Se n’è andato a 108 anni Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, sopravvissuto al lager, forse l’ultimo grande testimone del Novecento. Se n’è andato ora che l’orrore della guerra ha ripreso ad abitare la sua, la nostra Europa.

Era nato il 26 agosto 1913 e nella sua lunga vita ha fatto in tempo a rifarsi idealmente dei torti, delle violenze, delle umiliazioni e dei bavagli subiti. Da bambino, il fascismo mise il bavaglio alla sua lingua, alla sua cultura, alla memoria della sua gente. A sette anni vide l’incendio del Narodni Dom, sede delle organizzazioni della comunità slovena di Trieste.

“Fu l’inizio – ricordò una volta Boris Pahor – di una lunga persecuzione per il nostro popolo. I libri nella nostra lingua venivano accatastati e bruciati, a scuola dovevamo cancellare le nostre origini. Ci obbligarono a parlare e scrivere esclusivamente in italiano. Questo fu per me, per noi sloveni, il fascismo”.

Un’esperienza che lo segnò, quasi quanto la prigionia nei campi di concentramento nazisti. Il suo libro più famoso, “Necropoli” (per Le Monde «un libro sconvolgente, la visita a un campo della morte e il riaffiorare di immagini intollerabili descritte con una precisione allucinata e un’eccezionale finezza di analisi…»), racconta l’orrore e le atrocità della prigionia. E’ uscito nel ’67. In questi anni ha avuto traduzioni nelle lingue di mezzo mondo, ma in Italia è stato pubblicato per la prima volta (a parte un’edizione locale) solo pochi anni fa da Fazi Editore.

In Francia gli hanno assegnato la Legion d’Onore. E premi sono arrivati persino dagli Stati Uniti. Insomma, un altro bavaglio. Perchè per troppo tempo, come è stato scritto, ha fatto comodo a tanti che non si sapesse che nell’italianissima Trieste c´era uno scrittore capace di scrivere in un’altra lingua – la stessa lingua che il fascismo aveva negato a colpi di manganello e olio di ricino – e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga.

Spiegava Boris Pahor: «Gli anni Venti sono stati il periodo più brutto per Trieste, sotto l’Austria eravamo una città ricca, poi gli uomini di cultura e anche i sacerdoti sloveni sono stati mandati via. Nel 1920 hanno cominciato a bruciare le case di cultura slovene, quando il fascismo è andato al governo ci hanno tolto la lingua, hanno bruciato i nostri libri, ci hanno cambiato nomi e cognomi. Una vera e propria pulizia etnica “romana”, perchè sloveni e croati dell’Istria dovevano diventare italiani…». Ancora lo scrittore: «Lo hanno detto loro stessi: la rivoluzione fascista è nata a Trieste, quando hanno cominciato a ripulire la città…». Storie che sembrano lontane. Storie che rischiano di tornare di attualità, guardando a questa nostra Europa che abbatte i confini ma non sembra ancora vaccinata a sufficienza contro l’odio per l’altro, per il diverso, per chi viene da lontano, per chi è minoranza.

L’insegnamento che lascia Boris Pahor, sopravvissuto ai lager e agli orrori del secolo breve, sembra indicare una via d’uscita: recuperare la capacità di opporsi, di indignarsi, di dire no a tutti i bavagli. Tutte le volte che è giusto, che ce n’è bisogno. Anche quando tutto intorno sembra andare nel verso sbagliato.


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