Chiedo scusa ai grandi sostenitori dei “valori occidentali”, ma li vedo messi fortemente in discussione. E se il principale valore occidentale è la tolleranza e il rispetto per le idee che differiscono dalle nostre, diciamo che in questa fase storica l’Italia non sta proprio brillando in tal senso. Scrivere queste riflessioni nel giorno in cui, peraltro, ricorre l’ottantanovesimo anniversario del rogo dei libri nella Germania nazista induce ulteriormente a riflettere. E se l’introduzione è stata così dura è perché non mi basta che sia stato reintegrato nella giuria dello Strega Evgenij Solonovich, ossia uno dei massimi italianisti russi, innamorato della nostra letteratura e personalità di prestigio mondiale. Penso che una simile sgrammaticarura non vada accettata mai, nemmeno quando, per fortuna, il fuoco delle polemiche e della comprensibile indignazione ha costretto chi si è reso protagonista di un simile sopruso a fare marcia indietro. E pazienza se non erano gli organizzatori del premio i diretti responsabili di questa incresciosa vicenda ma il Ministero degli Esteri, perché il mondo della cultura deve sempre svolgere un ruolo non solo di ponte fra i popoli ma anche, se necessario, di opposizione nei confronti di decisioni governative che non si possono e non si devono accettare per nessun motivo al mondo, chiunque sia ad assumerle.
La posizione di chi scrive è chiara sin dal primo giorno: la doverosa condanna nei confronti di Putin, dei suoi crimini e di tutto ciò che esso rappresenta non può giustificare in alcun modo la russofobia che si sta diffondendo a macchia d’olio nel nostro Paese. La violenza disumana nei confronti della popolazione civile ucraina non può giustificare la discriminazione di un traduttore, di un artista o di uno sportivo solo perché russo, e lo direi anche se fosse libico, egiziano, yemenita o di qualunque altra nazionalità. I cartelli con su scritto che si vieta l’ingresso agli ebrei o ai meridionali vorremmo che fossero relegati al passato, memoria storica eterna della nostra vergogna e della barbarie che ne è derivata, sotto forma di un autentico genocidio o, più in piccolo, di una crudeltà che ha generato sofferenze non paragonabili ma comunque tremende. Non possiamo, noi italiani, dimenticarci della ferocia e del razzismo diffusi contro di noi in quel di Marcinelle. E non possiamo tacere al cospetto di un clima velatamente censorio, in cui si vogliono chiudere programmi televisivi, si vuole impedire a qualcuno di esprimersi e non si riesce ad accettare che il nostro sia un popolo adulto, per nulla bisognoso di “tutele”, oltretutto degne di uno Stato etico ma non di una democrazia liberale quale noi rivendichiamo di essere. Quando tutto questo, poi, avviene intorno a un premio glorioso, con una grande storia di indipendenza, giustizia e pensiero critico alle spalle, la sofferenza, almeno per me, è duplice. E si accresce se rifletto sul fatto che mia zia, Dina Bertoni Jovine, che amava la Russia, riconosceva la grandezza dell’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale e di sicuro non avrebbe stimato un personaggio come Putin, è stata una delle fondatrici di quel premio, nel salotto di Maria e Gofredo Bellonci, in anni in cui Ennio Flaiano, Elsa Morante e altri giganti che vinsero lo Strega ai tempi in cui mia zia era uno dei membri della giuria ci insegnavano costantemente quanto fosse importante possedere uno spirito libero, contestare il potere, non credere mai alle verità ufficiali e non arrendersi al pensiero unico. Forse perché quella generazione sapeva bene cosa fosse stato il nazi-fascismo, avendo contribuito attivamente a sconfiggerlo.
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