I cronisti romani non mollano e con coraggio ogni giorno raccontano il disagio crescente della sanità nel Lazio. La stessa cosa fanno i giornalisti in Lombardia, in Toscana, in Puglia, in Campania, dove sulle pagine locali è un susseguirsi di casi eclatanti, denunce, malasanità. In altre regioni è anche peggio ma l’informazione è meno attenta, diciamo così.
A quasi due anni e mezzo dall’inizio della pandemia e oltre 167.000 morti ufficiali, nessuna delle promesse fatte al mondo della sanità è stata mantenuta. Una sola cosa ha veramente funzionato, in modo particolare nel Lazio: la campagna di vaccinazione anti Covid nelle prime tre fasi. Encomiabile, ma non basta. Qualsiasi medico, infermiere, operatore sanitario, tutti letteralmente sfiniti e scoraggiati, ti racconta del ritardo che non si riesce a smaltire nelle visite, nella prevenzione, ti spiega che i tumori sono in continuo aumento perché molti cittadini non sono stati in grado di fare i controlli, e soprattutto ti parla dell’intasamento dei punti di pronto soccorso.
La denuncia più documentata è quella di cittadinanza attiva: alcuni interventi strutturali sono stati fatti, a macchia di leopardo, come aumento di posti letto e macchinari diagnostici, anche la ristrutturazione di molti reparti è in corso, ma ovunque, anche nelle regioni più efficienti, manca drammaticamente il personale! Senza l’aumento del 40% delle risorse umane anche i soldi del PNRR sono destinati a non migliorare lo stato della nostra sanità e a non consentire quella regressione degli indici di mortalità non solo da Covid che è in costante aumento dal 2020.
Ogni discussione si arena di fronte alla realtà. Negli ospedali italiani mancano medici e infermieri e non solo a causa della pandemia. Se si guardano i numeri, si vede che in un decennio (tra il 2009 e il 2019) il personale sanitario (che comprende anche biologi, chimici, fisioterapisti…) è calato di oltre 45.000 unità.
Per capire perché oggi ci troviamo in questa situazione, dobbiamo partire da lontano, cioè dalla spending review e dai mancati incrementi al Fondo sanitario nazionale che ci sono stati dopo la crisi finanziaria del 2008-09.
Tra il 2010 e il 2019, la Ragioneria generale dello Stato ha registrato una diminuzione di personale medico di 5.006 unità (il 4,3%).
La legge 191/2009 ha imposto un tetto di spesa sul personale: per anni le aziende sanitarie non hanno potuto spendere più dell’ammontare destinato al personale nel 2004, diminuito dell’1,4%. E niente è cambiato dopo la pandemia, neppure in termini di contratti di lavoro per il personale e men che meno per le nuove assunzioni. Alcuni concorsi sono partiti, è vero, ma la burocrazia è ancora lenta e il ginepraio delle leggi non è stato districato.
Uno studio condotto dalla Federazione dei medici ospedalieri con il supporto di Sda Bocconi ha poi calcolato che, fra il 2020 e il 2024, andranno in pensione 35.129 medici, 58.339 infermieri e altri 38.483 professionisti sanitari.
Analizzando i flussi in uscita dall’attività lavorativa del personale sanitario con quelli in entrata, rappresentati da coloro che hanno concluso il percorso di formazione e sono disponibili sul mercato del lavoro, rispetto al turnover del personale sanitario è possibile osservare che tra il 2020 e il 2024 ci saranno circa 8.299 medici e 10.054 infermieri in meno a disposizione del Ssn.
Secondo le elaborazioni di Fiaso, il numero dei precari si sovrappone in modo quasi coincidente con il fabbisogno medico, infermieristico e di altro personale rispettivamente nei prossimi uno, due o tre anni. Il numero dei precari medici e infermieri ricalca, inoltre, le differenze registrate dei flussi in entrata e in uscita dei professionisti, colmando il gap che si andrà a creare nei prossimi anni per l’imbuto formativo. L’assunzione a tempo indeterminato consentirebbe quindi di colmare le carenze di personale, ma anche di adeguare le dotazioni organiche alle nuove esigenze del Pnrr.
Le proposte avanzate al governo dai rappresentanti delle categorie sanitarie sono quindi sacrosante. Perché in questi numeri c’è la situazione perfino peggiore della medicina di territorio e dell’assistenza domiciliare, che, quando si faranno analisi approfondite, si scoprirà essere una delle cause principali dei troppi decessi da Covid. E anche delle diseguaglianze fra chi può permettersi di supplire con la sanità privata e chi no.
Oggi chi lavora nei pronto soccorso cerca di fuggire: le richieste di dimissioni dei camici bianchi si moltiplicano. Non riguardano solo il Cardarelli di Napoli. Secondo i dati di Anaao Assomed, il sindacato dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale, nei pronto soccorso mancano all’appello circa 4.500 medici. Senza possibilità di un ricambio: tra turni logoranti e remunerazioni poco attrattive, i concorsi per i contratti (a tempo determinato) vanno deserti. La grande sofferenza degli ospedali e le carenze della sanità territoriale sono due problemi che procedono a braccetto: quindi l’obiettivo del PNRR di rafforzare il sistema sul territorio (le case della salute) è giusto, anche per ridurre gli accessi in pronto soccorso, ma sarà valido solo con un maggior numero di medici, infermieri e operatori.
La normativa attuale prevede la possibilità di far accedere alle procedure di stabilizzazione speciali – entro la fine del 2022 – gli operatori precari che, reclutati con regolari procedure selettive, abbiano maturato, al 31 dicembre 2022, almeno 36 mesi di servizio, anche discontinuo, negli ultimi otto anni nel periodo di dichiarato stato di emergenza nazionale presso le amministrazioni che effettuano le assunzioni. Questo intervento è urgentissimo, come quello della stabilizzazione in corsia degli specializzandi, molto di più degli investimenti in telemedicina digitale, che pure sono essenziali. Ma a nessuno sfugge che una videochiamata non equivale a una visita del medico al paziente, e si comprende bene perché i virologi – sì, quelli bravi, ce ne sono tanti – sono furibondi perché abbiamo riserve eccellenti di farmaci antivirali contro il Covid e non si riescono a usarli entro i primi tre giorni mentre i contagi scendono ma i decessi restano ai livelli più alti in Europa. In quei tre giorni serve un medico che si assuma le sue responsabilità e intervenga immediatamente. Ma i se i medici sono sempre meno…Non c’è molto da aggiungere. Nella sanità, come in ogni settore, le risorse umane fanno la differenza!