15 maggio 2012, dieci anni fa. Pochi mesi prima era stato pubblicato un bellissimo pamphlet di lotta politica e passione civile ad opera di Stéphane Hessel, un vecchio partigiano francese che aveva deciso di parlare direttamente ai giovani, rivolgendosi loro senza paternalismo e con incredibile affetto. “Indignatevi!” scrisse e poco dopo aggiunse “Impegnatevi!”, coniugando la rabbia e l’impegno, la condanna e la proposta. Non a caso, il movimento spontaneo di cittadine e cittadini che si riversò alla Puerta del Sol di Madrid per l’acampada contro le politiche liberiste del governo Rajoy divenne, in breve tempo, un soggetto politico compiuto, Podemos, riuscendo nell’impresa di conquistare le città di Barcellona e Madrid grazie alle sindache Ada Colau e Manuela Carmena, una rivoluzione che ha fatto scuola e aperto nuovi spazi a livello continentale. Non a caso, abbiamo assistito, negli anni successivi, all’avventura di Corbyn alla guida del Labour, dopo che il vento del cambiamento aveva investito gli Stati Uniti grazie a Sanders, aprendo la strada alla Squad e restituendoci l’immagine di un’America diversa, di cui purtroppo sembra essersi persa traccia.
Dieci anni da allora e avvertiamo il bisogno di riflettere su tutto ciò che è accaduto in questo periodo, a cominciare dalla crisi della politica francese che ha condotto pressoché all’estinzione socialisti e gaullisti e favorito l’ascesa di un blocco di potere indistinto e privo della benché minima attenzione nei confronti dei ceti sociali più deboli, parliamo di Macron, e di una formazione pericolosa, al netto dei tentativi di mascherarsi da partito responsabile e pronto alla sfida del governo, come il Rassemblement National di Marine Le Pen. Alla vigilia delle Legislative di giugno, Jean-Luc Mélenchon sta riuscendo nell’impresa di riunire l’intera sinistra intorno alla sua figura, creando una coalizione progressista che potrebbe restituire speranza e fiducia a quella fetta sempre più ampia di francesi che si sentono abbandonati a se stessi. Sono gli abitanti delle periferie, coloro che vivono lontano dai fasti di Parigi, non frequentano Sciences Po, non hanno santi in Paradiso e ai considerano vittime di un’ingiustizia cui fanno fatica persino a dare un nome.
Sono i dannati della globalizzazione, i disperati che non ce la fanno più ad arrivare alla fine del mese, i protagonisti e le protagoniste del declino dell’Occidente che in questi mesi di guerra sta emergendo in tutta la sua asprezza. È una galassia che ha trovato in Mélenchon l’ultima ancora alla quale aggrapparsi, un punto di riferimento e un politico sincero, il cui programma magari ha anche qualche pecca ma la cui onestà intellettuale è evidente, al pari della bontà delle sue idee. Non a caso, è andato vicinissimo al ballottaggio, penalizzato unicamente dalle eterne divisioni della sinistra e dall’incapacità del fronte progressista di battersi dalla stessa parte al cospetto di un soggetto liberista che mette a repentaglio il nostro stare insieme e di una destra con palesi nostalgie per stagioni che vorremmo consegnare definitivamente ai libri di storia. L’auspicio è che a giugno questa coalizione riesca nel proprio intento, che Mélenchon possa ottenere un risultato al di sopra delle aspettative e che possa formare un raggruppamento sociale, prim’ancora che politica e parlamentare, in grado non solo di condurlo al Matignon ma di consentirgli di dar vita a un progetto che punti dritto all’Eliseo nel 2027 nonché alla ricostruzione del tessuto civico che il macronnismo d’assalto ha finito di sfibrare.
Per quanto riguarda l’Italia, a breve ricorrerà il decimo anniversario del clamoroso successo di Pizzarotti a Parma, preludio di ciò che sarebbe avvenuto pochi mesi dopo con la valanga grillina che si sarebbe abbattuta sull’establishment nel febbraio del 2013. Diciamo con chiarezza che il famoso rigore sbagliato da Bersani non era a porta vuota. Chiunque non sia miope e sappia compiere un’analisi che vada al di là del proprio pianerottolo, deve infatti ammettere che il voto italiano si inserì nell’ambito del malessere mondiale nei confronti di una globalizzazione già allora strafallita e nel contesto di un Paese che veniva da due decenni di Berlusconi, ossia di uno dei massimi cantori e interpreti di quel modo di governare e di intendere la cosa pubblica che ci ha condotto nel baratro. Bersani dovette fare i conti con un’Italia impoverita, con la miriade di errori del governo Monti, con i tagli e le riforme assurde che i cosiddetti “tecnici” avevano varato e con una rabbia che montava ovunque, fortunatamente incanalata da un soggetto bislacco e dai contorni all’epoca non del tutto chiari in una protesta comunque pacifica e democratica, dunque accettabile e, anzi, da studiare e comprendere per evitare di ripetere gli sbagli del passato. Naturalmente, accadde l’opposto: il PD si suicidò, o, per meglio dire, venne suicidato, sull’elezione del Capo dello Stato, rielesse Napolitano, cioè il massimo garante del sistema, e poi si consegnò mani e piedi a Renzi. Il resto è storia nota, Draghi e ascesa della Meloni compresi.
Ci domandiamo cosa ne sarà di quella rabbia, oggi accresciuta dal disastro generato dal Covid e dalle conseguenze della guerra, legate soprattutto alle sanzioni alla Russia. Cosa ne sarà di un’America in cui Biden sta palesemente fallendo? E cosa accadrà alle nostre latitudini? Per capire la natura del M5S, la sua evoluzione e il suo destino, bisogna partire da una riflessione che Bobbio dedicò al comunismo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino: può esaurirsi il comunismo ma non le ragioni che hanno indotto milioni di uomini e donne in tutto il mondo ad abbracciarne l’ideologia e i valori. Lo stesso, fatte le debite differenze, vale per il M5S. Possiamo anche denigrarlo, disprezzarlo e auspicarne la sconfitta definitiva e la scomparsa, ma le ragioni che lo hanno fatto nascere resteranno tutte lì, nel cuore di una globalizzazione disumana e senza regole e di un Occidente che ha smarrito i principî che avevamo stabilito nel dopoguerra, quando la politica si preoccupava di includere e di rispondere in maniera fattiva alle esigenze delle persone, in nome di un’idea di società basata sui diritti, sulla dignità umana e su un modello di sviluppo all’insegna della sostenibilità complessiva. Tutto ciò che negli ultimi trent’anni è venuto meno, con i risultati cui assistiamo ogni giorno.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera assassinata a Jenin lo scorso 11 maggio. L’attacco planetario nei confronti della libera informazione rende bene l’idea della fase storica maledetta che stiamo vivendo.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21