A Paul Anthony Ginsborg volevamo bene, soprattutto per quell’intreccio di storie che, a inizio secolo, portò molte e molti di noi a incontrarsi, pur provenendo da percorsi assai diversi. La sua scomparsa, oggi, all’età di settantasei anni, lascia in noi un senso di vuoto e di tormento, lo stesso che tuttavia ci aveva fatto incontrare all’epoca, nell’Italia del dopo Genova, quando il berlusconismo era arrembante e la sinistra batteva drammaticamente in ritirata.
In un’Italia che ancora si leccava le ferite dopo le violenze strazianti del G8, mentre l’editto bulgaro palesava quali fossero i nuovi rapporti di forza, peraltro già evidenti, e la legge Gasparri rendeva bene l’idea della direzione di marcia che avrebbe seguito quel governo sui temi dell’informazione e della libertà d’espressione, un nutrito gruppo di intellettuali decise di non arrendersi e fare fronte comune. Nacquero così Articolo 21, Libertà e Giustizia, la serata del Palavobis a Milano in nome della legalità, a dieci anni da Mani Pulite, i Girotondi di Moretti intorno a viale Mazzini, il Social Forum che avrebbe avuto a Firenze la sua consacrazione e il successivo movimento contro la guerra in Iraq, oceanico, capace di unire mondi un tempo distanti ma in quel momento disposti a prendersi per mano. E Ginsborg, con la sua proverbiale gentilezza e la sua arte del dubbio, quell’interrogarsi sistematico sulla storia del nostro Paese e la mitezza con cui sapeva tenere insieme i diversi e, talvolta, addirittura gli opposti, divenne ben presto uno degli animatori di quella stagione forse irripetibile.
Il 2002 fu, infatti, un anno terribile per l’Italia. Il pensiero alterglobalista, che aveva trovato la propria ragione di esistere a Seattle e una forza teorica e propositiva senza precedenti a Porto Alegre, a Genova aveva tuttavia subito una battuta d’arresto devastante. I manifestanti erano stati straziati dai tonfa lungo le strade, a Forte San Giuliano, alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto, vessati e umiliati in tutti i modi, nel sostanziale silenzio dei due schieramenti. I minimi tentativi di accertamento dei fatti che vennero compiuti all’epoca non furono, infatti, sufficienti per ricostruire ciò che era accaduto in quei giorni di luglio, e la sinistra si guardò bene, sia all’opposizione che successivamente al governo, dal varare la Commissione d’inchiesta che pure aveva inserito nel suo programma, non avendo alcuna intenzione di attuarlo fino in fondo e, temiamo, nemmeno in parte.
Se si vuole comprendere la matrice del grillismo, che qualcuno erroneamente fa risalire ai “Vaffa” di Grillo in piazza Maggiore nel 2007, bisogna pertanto tornare indietro di cinque-sei anni. Il giustizialismo, che pure è stato magna pars del grillismo delle origini e di alcuni passaggi decisivi della sua vita all’opposizione nella legislatura in cui entrò in Parlamento, non esaurisce affatto la ragion d’essere di quel soggetto politico. La bussola di Ginsborg, da questo punto di vista, può essere d’aiuto, specie se si colloca il Movimento 5 Stelle nell’ottica dell’opposizione ai fondamenti del berlusconismo, che la sinistra non ha mai avuto il coraggio di compiere, e nel campo di un’opposizione ben più ampia al modello di sviluppo dominante a livello planetario, di cui il liberismo di Bush e quello di Blair costituivano le due facce della stessa medaglia. E quando oggi si parla di un ritorno alle origini di quel soggetto politico, non si intende, a nostro giudizio, una riproposizione del turpiloquio di piazza, bensì la valorizzazione di quel pensiero alternativo che, fra il 2001 e il 2007, riportò all’impegno politico una moltitudine di ragazze e ragazzi, ora per lo più disillusi, disincantati e inclini all’astensione.
Da Articolo 21 a Libertà e Giustizia, passando per le aspre battaglie in nome del pluralismo televisivo, Ginsborg fu il simbolo vivente di quella fase storica movimentista che la sinistra ufficiale non seppe e non volle intercettare, finendo con il lasciare campo libero a una serie di pulsioni che sono sfociate, più o meno contemporaneamente, in una nuova fase movimentista, animata dal Popolo Viola e dalle sue manifestazioni contro il berlusconismo ormai in fase calante, e nella vorticosa ascesa del grillismo politico, fino al 25 per cento dell’esordio in Parlamento e alla vetta del 2018, al termine dell’avventura renziana e dei contorcimenti di un Partito Democratico ormai del tutto privo di identità.
Rendere omaggio a Paul Ginsborg ci dà, quindi, modo di comprendere davvero ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni e perché adesso si faccia così tanta fatica e immaginare un futuro diverso e migliore per la comunità nel suo insieme. E ci ricorda che di un altro mondo possibile e necessario oggi avvertiamo, più che mai, il bisogno. Sperando che la sinistra si lasci finalmente invadere dalla freschezza di ciò che si muove all’infuori di sé, senza aver paura di tutto, senza tentennamenti e senza star sempre a fare calcoli cinici che poi si rivelano sbagliati. Con meno di questo, non ci attende un nuovo governo Draghi ma qualcosa di ben peggiore, anche perché la globalizzazione è un dio che ha fallito dappertutto, in Italia in particolare, e la destra di oggi non è quella del 2001 ma quella che cerca di darsi un tono con la saggezza dei Pera e dei Tremonti ma, al dunque, fa fatica ad ammettere la natura fascista e squadrista dell’assalto alla CGIL, oltre a strizzare l’occhio al populismo di Orbán e a non disdegnare qualche contatto di troppo con gli amici di Putin. A tal proposito, se Ginsborg fosse ancora qui, ci direbbe, col suo sorriso disarmante, che è normale che alcuni di coloro che vent’anni fa volevano opporsi alla globalizzazione senza regole da sinistra, oggi lo facciano da destra. Quando si è dannati dalle conseguenze di un morbo, difatti, non c’è più spazio per la filosofia.
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