È possibile trasformare il dolore per la perdita di un figlio o di un fratello, vittime innocenti della mafia, per farne una missione di vita impegnata a promuovere una cultura della legalità? Ascoltando la testimonianza commovente di una mamma che ha visto con i suoi occhi la morte di Claudio un bambino di soli 11 anni, riverso a terra ricoperto di sangue, brutalmente assassinato da chi non è mai stato identificato, processato e condannato, ci si pone questo interrogativo che fatica a trovare una risposta esaustiva. Tutto accadeva a Palermo nel 1986 e Graziella Accetta ha scelto di non chiudersi nel suo dolore per chiedere giustizia ad uno Stato che non ha saputo o forse non ha fatto abbastanza per cercare i mandanti e gli esecutori di un delitto che fa parte di un lungo elenco di vittime innocenti della mafia. Non ci sono solo magistrati, poliziotti e carabinieri che sono stati uccisi dalla mafia, ma anche bambini, uomini e donne vittime innocenti e spesso dimenticate. Insieme a Gabriella Accetta al Teatro Comunale di Limena (in provincia di Padova), intitolato a Falcone e Borsellino, c’era anche Massimo Sole, fratello di Giammatteo rapito, torturato e ucciso da mafiosi travestiti da poliziotti. Un evento organizzato da Anna Tringali e Giacomo Rossetto di Teatro Bresci ideatori e direttori artistici del progetto Impegnati, con la moderazione di Monica Andolfatto, giornalista e segretaria del Sindacato giornalisti del Veneto, che ha intervistato gli ospiti e in video collegamento, Nicola Gratteri procuratore della Repubblica di Catanzaro, e il professor Antonio Nicasio, uno dei massimi esperti al mondo di criminalità organizzata.
Questo accadeva domenica 22 maggio, il giorno prima dell’anniversario della morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, avvenuta il 23 maggio 1992, esattamente trent’anni fa a Capaci. Lontani da celebrazioni e passerelle mediatiche a favore di telecamere, a Limena si è potuto assistere ad un momento di raccoglimento e di condivisione attorno a chi soffre come i famigliari delle vittime e di chi rischia la vita per garantire la salvaguardia di una società onesta e capace di contrastare criminalità organizzata, corruzione e infiltrazione mafiosa all’interno della società civile, delle stesse istituzioni. E il titolo del libro presentato al pubblico “Non chiamateli eroi. Falcone, Borsellino e altre storie di lotta alla mafia”, scritto da Antonio Nicaso e Nicola Gratteri, riassume perfettamente il senso dell’incontro che ha preceduto quello delle “Storie di Giammatteo Sole e Claudio Domino, vittime innocenti di mafia”.
Quello che segue è un dialogo a più voci le cui parole provenivano da chi la mafia la conosce bene, la combatte rischiando la propria vita, e racconta di un’Italia che non vuole sentirsi sconfitta, nonostante un clima di omertà, di depistaggio nel cercare di impedire di conoscere la verità delle tante, troppe stragi avvenute negli anni, di isolamento che hanno condannato a morte magistrati come Falcone e Borsellino. «Sacrifici che hanno cambiato tutti noi e ricordare le vittime è un nostro impegno che vogliamo proseguire costantemente e ringrazio in particolare chi oggi ha voluto essere qui con noi – ha spiegato Anna Tringali – dimostrando sensibilità e attenzione per quello che vogliamo fare con Impegnati. ll 19 luglio prossimo avremo qui con noi in presenza Nicola Gratteri che parlerà di cosa significa essere magistrato oggi, a cui seguirà lo spettacolo “Borsellino” con Giacomo Rossetto. Una nostra produzione di Teatro Bresci».
Monica Andolfatto ha poi introdotto l’intervento di Antonio Nicasio che insegna attualmente in Canada, in occasione dell’anniversario della morte di Falcone e Borsellino e dell’isolamento subito, dei sabotaggi e delle maldicenze ricevute, chiedendo se oggi si respira ancora questo clima. Nicasio non ha dubbi in merito: «Nel caso di Falcone si può dire che è stato un giudice molto avversato e nonostante questo lui è rimasto sempre fedele ai propri principi, anche di fronte ad un sistema che non lo amava. Miserie umane e invidia nei confronti di chi cercava di stanare quel grumo di potere presente anche nell’economia. Indagini rivolte verso Rosario Spatola impresario legato agli Inzerillo che insieme ai Gambino gestirono il falso rapimento di Michele Sindona. Anche per questo Falcone fu accusato di voler rovinare l’economia quando decise di capire cosa facevano le banche. Contro di lui ci furono interventi istituzionali anche da parte della Procura generale di Palermo. Quando ci fu il fallito attentato dell’Addaura (20 giugno del 1989 ) nei suoi confronti, il magistrato rispose che “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi” Anche Nicola Gratteri è un magistrato non amato del potere ( a cui è stata rinforzata la scorta dopo la segnalazione dei servizi segreti americani sulla base di un effettivo rischio di attentato, ndr), così come è accaduto a Falcone. Complicità istituzionali, complicità esterne per capire che cosa sono le mafie. Non esistono buoni da una parte e cattivi dall’altra – ha spiegato Nicasio – e in mezzo il nulla. Il coraggio e la coerenza di Gratteri non sta a significare essere un eroe ma svolgere il proprio ruolo. Assistiamo alla commemorazione del grande potere quando prima c’è stato lo sberleffo; ora si mettono tutti in fila per le commemorazioni e allo stesso tempo mettono in discussione quello che ha fatto».
Entrambi sono gli autori de “La Costituzione attraverso le donne e gli uomini che l’hanno fatta” edito da Mondadori con le illustrazioni di Marta Pantaleo, rivolto ai bambini dai 10 anni in su. Con un unico intento, quello di spiegare la Costituzione Italiana anche alle nuove generazioni.
Monica Andolfatto ha poi intervistato Nicola Gratteri (collegato da Ancona dove gli è stato conferito il dottorato di ricerca honoris causa in “Management and law” all’Università Politecnica delle Marche e la cittadinanza onoraria del capoluogo marchigiano, e successivamente il sigillo dell’Università di Urbino dove ha tenuto una Lectio magistralis sulla “Storia segreta della ‘ndrangheta), se ci fosse ancora la possibilità di avere ancora speranza alla luce di quanto accaduto con le stragi e i delitti di centinaia di vittime per mafia. «Non posso dare una risposta di speranza, conforto e rassicurazione. Il mio compito è quello di dire la verità e di raccontare quello che sto facendo per far capire al governo e ai giovani come sia importante la non convenienza a delinquere. Bisogna spiegare cosa guadagna e cosa rischia un corriere della droga e quanto guadagna un idraulico. Io ho il sacro culto della verità e non è mia abitudine dire bugie, specie quando parlo ai giovani. Purtroppo non sono convinto che siano il futuro della società ma credo che anche chi ha novant’anni possa contribuire quando fanno una scelta per migliorare la nostra società. I giovani possono fare una scelta di campo perché assorbono come una spugna nel bene e nel male e bisogna rispondere a loro, mettersi in discussione. Io mi avvicino attraverso il dialogo e mi confronto, se sarò credibile potrò far cambiare idea ad una parte di loro e sono pronto a rispondere alle loro domande».
Nicola Gratteri ricopre il ruolo di procuratore distrettuale per le mafie a Catanzaro ma il suo lavoro lo porta a indagare anche all’estero, specie in Sudamerica dove operano le organizzazioni internazionali del narcotraffico, ma conosce bene anche le infiltrazioni della criminalità organizzata che si infiltrano al nord Italia. Su sollecitazione di Monica Andolfatto nel citare l’esempio del Veneto, risponde affermativamente: «La mafia è presente anche in questa regione e fa shopping nelle attività economiche e commerciali, riesce a infiltrarsi nel territorio con molta facilità. Purtroppo abbiamo un governo delle larghe intese che sulle riforme proposte non c’è nulla di quanto ci chiede l’Europa.
Nulla rispetto alla riforma della giustizia per velocizzare i processi. Assistiamo ad una resa dei conti della politica nei confronti della magistratura dove tutti sono d’accordo, salvo poi stracciarsi le vesti per Falcone e Borsellino a Palermo dove vanno i “gattopardi”. In Sicilia li deridevano quando erano vivi, adesso salgono sul palco per omaggiare due magistrati che non ci sono più». Alla domanda dov’era il giorno quando ci fu la strage di Capaci, il procuratore della Repubblica ricorda con commozione: «Ero un giovane avviato alla carriera e il 23 maggio del 1992 mi trovavo a Bologna nel carcere della Dozza per un interrogatorio quando senti provenire dei rumori provenienti dalle celle, voci concitate, ma non comprendevo quale fosse il motivo. In auto ascoltando la radio compresi il perché, sentendo la tragica notizia. Non me lo aspettavo che uccidessero Falcone perché non era più in servizio a Palermo, avendo accettato l’incarico di direttore generale degli affari penali. Borsellino, invece, è una morte annunciata, un conto alla rovescia. Antonio Nicasio ha detto delle grandi verità quando ha parlato dei diffamatori come Alfredo Galasso e Leoluca Orlando che accusarono Falcone durante il Maurizio Costanzo Show (l’avvocato Galasso contestò la sua scelta di lasciare Palermo per Roma e lo disse pubblicamente alla presenza dello stesso Falcone il 26 settembre del 1991, mentre Orlando, che in quegli anni era sindaco di Palermo, accusò il magistrato di non aver indagato su omicidi eccellenti e per aver arrestato una seconda volta l’ex sindaco Vito Ciancimino ndr). Oggi capisco lo stato d’animo di non può essere libero e vedere chi, invece, può dire quello che vuole e crede di aver fatto di tutto contro la mafia».
Cosa significa vivere sotto scorta? «Una condizione che ho subito dal 1989 in poi, quando spararono dei colpi di pistola alla porta di casa della mia fidanzata, per poi chiamarla al telefono e dirle che stava per sposare un uomo morto. Io non posso più andare al mare, fare una passeggiata con mia moglie. Non ho potuto crescere i miei figli. Nel mio lavoro sono spesso in Sudamerica a cercare i narcotrafficanti e non posso tornare indietro in quello che faccio ma devo andare avanti perché dovrei fare i conti con la mia coscienza se non lo facessi». Come lo spiega tutto questo ai suoi figli?, chiede Monica Andolfatto. «Ora capiscono ma prima erano troppo piccoli per comprendere» (anche la sua famiglia vive sotto tutela da parte delle forze dell’ordine, ndr). Anna Tringali cita poi l’indagine di Gratteri chiamata “Rinascita Scott” seguita con poca attenzione da parte dei media che si sono presentati solo all’inizio del processo e hanno informato i lettori con scarsa attenzione vista l’importanza di quello che è stato definito un maxiprocesso alla stregua di quello che si tenne a Palermo negli anni ‘80: «dove Gratteri ha ricevuto perfino delle calunnie da parte di alcuni giornalisti ed un eco della notizia ridicola». «Io ho un rapporto di grande stima che mi viene dai comandanti generali dei carabinieri, della guardia di finanza e polizia e mi sostengono – ha spiegato il magistrato – e dal 2016 a Catanzaro c’è stata una rivoluzione con un ufficio meraviglioso dove lavorano giovani magistrati entusiasti con me. Sono una bella squadra e insieme a loro abbiamo potuto liberare molti territori della Calabria. Noto l’assenza di un’informazione che colga l’importanza di quanto facciamo dove la narrativa è quella che sgretola l’impianto normativo che contrasta la mafia per far passare tutto attraverso una normalizzazione. Le mafie non hanno bisogno di uccidere perché possono più facilmente corrompere.
Assistiamo ad un forte abbattimento morale ed etico. Trent’anni fa chi riceveva un avviso di garanzia era disperato, ora lo usano per delegittimare il lavoro di chi cerca di garantire la legalità. Sta accadendo un cambio della cultura della giustizia sociale e le infiltrazioni della mafia sono radicate e la magistratura non può bloccarle per tempo. Ora investono da Roma in su con il guadagno che ricavano dalla cocaina. In Emilia Romagna e Lombardia ci sono molte aziende gestite dalla ‘ndrangheta con il riciclaggio e anche in Veneto c’è una forte crescita essendo una regione molto permeabile dove le aziende perdono la loro leadership. Ricevono denaro dalla mafia per investire ma poi vengono esautorate e perdono la proprietà. I proprietari grazie alla loro ingordigia alla fine devono cedere le aziende». Ma come sconfiggere le mafie chiede ancora Monica Andolfatto citando una frase celebre di Gesualdo Bufalino che scrisse “La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”: «La formazione è fondamentale e io quando vado nelle scuole spiego ai ragazzi l’importanza dello studio perché è una forma di riscatto nei confronti degli adulti, l’unico modo per poterlo fare ed è necessario un bagno di consapevolezza visto che essere normali oggi è qualcosa che appare controcorrente» – ha concluso Gratteri.
L’emozione visibile da parte dello stesso magistrato ha suscitato nel pubblico una partecipazione empatica resa ancora più palpabile quando la parola è stata data a Graziella Accetta mamma di Claudio Domino e a Massimo Sole, fratello di Gianmatteo. Anna Tringali ha spiegato come le loro storie sono meno conosciute rispetto alle vittime di mafia come quelle tra la magistratura, servitori dello Stato come sono i carabinieri e i poliziotti, ma non meno dolorose di tutte le altre. Rivolgendosi al pubblico l’invito è stato quello di «raccontare una realtà che toglie il sonno che voglio condividere con voi per togliere il sonno anche a chi ci ascolta ora». Storie drammatiche e allucinanti per la loro crudeltà infierita su innocenti come possono essere i bambini. Massimo Sole: «Sono degli invisibili, uccisi dalla mafia e dall’indifferenza. 125 bambini uccisi dalla mafia sono l’equivalente di cinque classi vuote con lo stesso silenzio. Mio fratello Gianmatteo era un geometra e fu ritrovato carbonizzato dentro un auto. Quando mia madre lo venne a sapere urlò dalla disperazione. Ci fu data una scorta che accettammo per un anno e mezzo ma ci sentivamo violentati perché la nostra vita era condizionata. In quel periodo quando mio fratello fu prima ingannato da falsi poliziotti che lo convinsero ad andare con loro, poi torturato e infine ucciso e bruciato, ci furono dodici omicidi di stampo mafioso. Mio fratello non c’entrava nulla e forse era stato scambiato per me che a quel tempo frequentavo una compagnia di amici di mia sorella che si vedeva con il figlio di un boss». Anche la testimonianza della mamma di Claudio rivela quanta ferocia brutale possa possedere la mafia se decide di assassinare un bambino di soli undici anni.
«Noi non abbiamo mai avuto giustizia e mai un processo per stabilire chi ha ucciso mio figlio. Io ero la proprietaria di una ditta di pulizie e avevamo vinto la gara d’appalto per le pulizie all’interno dell’aula bunker di Palermo dove si svolgeva il maxiprocesso, ottenuto solo dopo che tutti i nostri famigliari erano risultati estranei a qualunque legame con persone con precedenti penali. Mio figlio è stato colpito a morte con un proiettile esplosivo sparato da un uomo in sella ad una moto». Il racconto che segue dimostra con molta probabilità come questo delitto sia stato ordinato per condizionare le sorti del processo che era in corso a Palermo. Le cronache riportano quanto accaduto nel 1989, quando Giovanni Bontate detto l’avvocato, chiede di prendere la parola e legge alla Corte un breve comunicato in cui si dissocia, insieme agli altri imputati, riferendosi all’assassinio di Claudio. Facendo così ammetterà l’esistenza di Cosa Nostra e anche per questo verrà a sua volta ucciso un anno dopo, come rivelerà il pentito Marino Mannoia. «Quando vedi un figlio dentro una bara bianca non c’è più nulla che ti fa paura. Mio figlio è stato ucciso dalla mafia e dimenticato dallo Stato – è la triste confessione che questa madre racconta con estrema compostezza – , anche se noi abbiamo poi continuato a lavorare per altri quindici anni con lo stesso Stato. Ricordo che mi fecero vedere le foto dell’autopsia di mio figlio ma non ci chiamarono più in seguito gli inquirenti, nonostante io abbia continuato a chiedere di sapere cosa avevano scoperto. Ci sono quattro Procure che hanno indagato e ci sono gli atti depositati ma non si è più saputo nulla. Io stessa ho chiesto in Procura a Palermo di poter conoscere cosa è stato accertato. Il fine pena siamo noi a subirlo e non neghiamo i diritti umani a nessuno, non li chiamiamo bestie. Loro sono cannibali che si nutrono di sangue umano, Vogliamo giustizia non vendetta ma non concederemo il perdono. Sappiamo che ci sono stati 5 collaboratori di giustizia che hanno parlato di Claudio ma nessuno ci ha chiamato per spiegare cosa abbiano detto. Vogliamo la verità e capire come sia possibile chi ha ucciso mio figlio non venga trovato e perché uno come Bontade si dissociò pubblicamente. A che fine?». Graziella Accetta ha ricordato anche la polemica suscitata quando Bruno Vespa invitò a Porta a Porta il figlio di Totò Rina. «Abbiamo cercato di impedire la messa in onda della trasmissione e siamo andati a protestare davanti alla sede Rai di Palermo. Vespa in seguito mi fece cercare per invitarmi a Roma ma io rifiutai». Gabriella è una madre che preferisce andare nelle scuole a parlare di legalità e si batte per ottenere giustizia da uno Stato che ancora oggi non permette di dare pace a chi soffre da trent’anni. Nicola Gratteri sarà a Limena il prossimo 19 luglio su invito di Impegnati dove sarà accolto da Anna Tringali con la moderazione di Monica Andolfatto. A seguire lo spettacolo “Borsellino” di e con Giacomo Rossetto del Teatro Bresci. Per partecipare all’evento gratuito è possibile prenotarsi scrivendo a organizzazione@teatrobresci.it