«Cosa nostra è una sorta di ‘stato illegale’ organizzato, con una sua politica e relazioni con società, economia e istituzioni». «Falcone si era applicato, certo d’intesa con Borsellino».
Caro direttore,
il 30 aprile di 40 anni fa veniva ucciso dalla mafia il politico siciliano Pio La Torre. Si voleva impedire che diventasse legge una sua proposta. La rabbia e l’indignazione degli italiani onesti dopo la morte di Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982) costrinse però la politica a riesumare quella proposta, convertendola nella legge intitolata appunto a La Torre, oltre che al ministro Rognoni. Ed ecco che la mafia, di cui prima si negava spudoratamente l’esistenza, è finalmente vietata e punita di per sé stessa – come reato associativo – nell’art. 416bis del Codice penale.
Forze dell’ordine e magistratura possono così disporre di uno strumento di eccezionale importanza. Giovani Falcone e Paolo Borsellino ne fecero un uso intelligente, inserendolo nel metodo di lavoro del pool antimafia (creato da Rocco Chinnici e perfezionato da Nino Caponnetto) di cui erano le punte di diamante. Un metodo imperniato sui criteri – rivoluzionari per quei tempi – della specializzazione degli operatori e della centralizzazione dei dati. Ne scaturì il cosiddetto ‘maxiprocesso’, un vero capolavoro. Maxi non perché Falcone e Borsellino fossero malati di protagonismo (come qualcuno cercò di insinuare), ma perché maxi era stata l’impunità di cui la mafia aveva prima goduto.
Perciò, ecco un processo di proporzioni enormi, maxi appunto: centinaia di capi d’accusa (associazione mafiosa, 120 omicidi contestati, traffico di droga, rapine, estorsioni e altro ancora; 475 imputati e 200 avvocati difensori; condanne in primo grado per 19 ergastoli e 2.665 anni di carcere).
Ma al di là delle cifre, l’aspetto decisamente più significativo del processo è che per la prima volta si condannano non solo i ‘soldati’ semplici e i capi intermedi, ma anche il cuore e il cervello dell’organizzazione. E si dimostra che Cosa nostra non è solo una mentalità, un insieme di malavitosi e spacciatori che compiono rapine od omicidi, ma molto di più: una sorta di ‘stato illegale’ organizzato, con una sua politica e relazioni con la società, l’economia e le istituzioni.
Per ostacolare il maxiprocesso si scatenano in quel periodo campagne calunniose contro i magistrati e i pentiti, che si intrecciano con gli imbrogli che Cosa nostra prova a mettere in atto per ‘aggiustare’ il processo. Ma le prove sono così solide da resistere a ogni tipo di manovra e il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione (emarginato un magistrato famoso come… ammazzasentenze) conferma definitivamente le condanne del maxi.
Intanto Falcone (autoesiliatosi a Roma presso il ministero della Giustizia, dopo aver constatato che a Palermo nessuno più lo voleva) si era applicato, certo d’intesa con Borsellino, alla creazione di una nuova Antimafia, quella che ancora oggi funziona bene, proiettando su scala nazionale il metodo vincente (specializzazione e centralizzazione) sperimentato a Palermo. Di qui strutture antimafia come la Procura nazionale, le Procure distrettuali e la Dia (una Fbi italiana). L’effetto incrociato delle condanne del maxi e delle novità in tema di organizzazione dell’antimafia è stato dirompente per Cosa nostra.
Che ha reagito scatenando una feroce rappresaglia contro gli odiati Falcone e Borsellino, uccisi a Capaci e in via d’Amelio con gli uomini e le donne che erano con loro il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Con le stragi del 1992 si determinò il rischio concreto che la nostra democrazia potesse precipitare in un abisso senza ritorno. Ricordiamo le accorate parole, «è tutto finito, non c’è più niente da fare», pronunziate al funerale di Paolo Borsellino da Caponnetto.
Ma dopo un iniziale disorientamento vi è stata una forte reazione corale di contrasto (forze dell’ordine, magistratura, politica per un paio d’anni ‘magicamente’ unita, società civile: la Palermo ricoperta di lenzuola bianche). Una vera Resistenza che ci ha salvati dall’abisso. Per quanto mi riguarda, mi sono messo in gioco chiedendo di essere trasferito da Torino a Palermo a capo della Procura (una scelta definita da Andrea Camilleri – con sapida ironia – il primo risarcimento dei Savoia alla Sicilia dopo l’annessione…).
Dopo le stragi, senza distinzioni di casacche, all’unanimità, sia pure con un iter tormentato, viene approvato l’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, ideato da Falcone. Viene finalmente interrotto quel circuito perverso che rendeva il carcere dei mafiosi una protesi del loro territorio. Il 41bis si innesta su un’altra novità legislativa, la legge del 1991 che favorisce e incentiva i ‘pentimenti’ cioè le collaborazioni con la giustizia.
L’eredità di Falcone e Borsellino è dunque evidente. Se sfuma la facilità con cui in passato si potevano evitare le condanne, se il carcere diventa una cosa ‘seria’ anche per i mafiosi condannati, ecco che si cercherà di ridurre questa tenaglia al minor danno, sfruttando anche gli spazi offerti dalla legge sui pentiti. Forze dell’ordine e magistratura, in questa nuova situazione, ritrovano efficienza ed entusiasmo.
I risultati non tardano ad arrivare e sono imponenti: latitanti arrestati, per numero e ‘caratura’ criminale, come mai in precedenza; Cosa nostra costretta a subire una pesante stagione di processi, conclusi con giuste condanne (650 ergastoli in particolare); processi anche per la fondamentale ‘zona grigia’ con imputati ‘eccellenti’ (Andreotti e Dell’Utri, fra gli altri).
L’Italia ha ripreso così la strada tracciata da Falcone e Borsellino con il maxiprocesso. La strada giusta per contenere e alla fine sconfiggere Cosa nostra, che per parte sua ha dapprima insistito nella rabbiosa strategia stragista con gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano, per poi inabissarsi in modo da uscire dai ‘riflettori’, rimarginare le ferite, ritessere la tela dei suoi rapporti, riprendere sotto traccia le imponenti attività di accumulazione di capitali.
(Da Avvenire e Liberainformazione)