Dove finisce tutta l’umanità in eccesso che l’Europa rifiuta e respinge? È questa la domanda a cui ha cercato di rispondere il convegno internazionale che si è tenuto nei giorni scorsi a Zugliano, promosso e organizzato da RiVolti ai Balcani, dalla Rete Dasi del Friuli Venezia Giulia e dallo stesso Centro Balducci che lo ha ospitato.
«La stragrande maggioranza rimane in Paesi che diventano di fatto Paesi-contenitori di rifugiati e che non possono o non vogliono assicurare ai rifugiati stessi né una effettiva protezione giuridica né un percorso di integrazione sociale.» ha detto Gianfranco Schiavone, presidente dell’ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà), nella relazione di apertura della due giorni. La maggior parte — ha proseguito Schiavone — vengono ospitati in campi che vengono definiti di accoglienza, ma che a ben guardare svolgono un’altra funzione, quella di campi di confinamento, ovvero di luoghi che garantiscono la minima sopravvivenza materiale ai rifugiati ma allo stesso tempo li segregano dentro una dimensione di sospensione, a tempo indefinito, dei loro diritti fondamentali: contesti collettivi in cui la dignità delle persone viene mortificata e in cui parallelamente a una continua e macroscopica violazione giuridica dei diritti fondamentali delle persone matura una nuova banalità del male.
A questo vero e proprio sistema, frutto di precise politiche messe in campo dall’Unione Europea, ci siamo ormai assuefatti, al punto che finiamo col credere alle dichiarazioni di politici e alti funzionari europei che hanno il coraggio di lodare questi campi come esempi positivi, modelli da replicare e diffondere. In realtà si tratta di strutture enormi ricavate in luoghi abbandonati e ubicate in aree isolate e talvolta quasi inaccessibili, dove è di fatto impraticabile qualsiasi relazione sociale con l’esterno e qualsiasi forma di vita privata, dove l’accesso è militarizzato e dove le condizioni di vita, a partire da quelle igieniche, sono disumanizzanti: oltre alla mancanza di privacy si registra un rumore costante, la difficoltà di accedere al cibo, all’acqua, alle cure mediche, il rischio di subire violenza, tutte situazioni che generano problemi a rilassarsi e a dormire, un affaticamento generale, facile irritabilità e nervosismo, oltre a un senso di disperazione e alla convinzione di essere un fallimento. Questa politica di esternalizzazione portata avanti dall’Unione, fatta di silenzi complici, di delega del diritto d’asilo a Paesi terzi, di finanziamenti alla Libia, di non intervento in Bosnia e al confine tra Polonia e Bielorussia, ma anche di respingimenti e torture tollerati, che in larga parte riguardano donne e bambini, ci pone davanti all’inizio di possibili involuzioni drammatiche: come ci ricorda Primo Levi, quando si finisce col ritenere anche inconsapevolmente che “ogni straniero è nemico” al termine della catena sta il lager.
Per questo è importante parlarne, come è stato fatto per due giorni a Zugliano con ospiti internazionali che hanno denunciato la situazione nei campi di confinamento in Grecia, Macedonia, Turchia, Bosnia, Serbia, ma anche le politiche di respingimento condite da inaudita violenza alle frontiere esterne dell’Unione europea: perché nessuno possa un giorno dire “io non sapevo”. Perché nessuno possa scaricare su altri le responsabilità, come l’Europa sta scaricando le persone al di fuori dei suoi confini. Lontano dagli occhi e lontano dal cuore dei diritti, come ha detto l’avvocata Caterina Bove, intervenendo a nome dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione).
«Dobbiamo — ha affermato l’europarlamentare Pierfrancesco Majorino — sempre di più produrre un discorso di verità e, pur sapendo che tutta la materia dell’immigrazione è prepotentemente condizionata dalla paura del consenso, dobbiamo impegnarci in vista di politiche e regole che scommettano su canali legali di ingresso e maggiore emersione dei flussi: solo così sarà possibile ottenere rispetto e salvaguardia dei diritti umani.» Ma per questo la politica non basta: occorre lavorare sulla memoria delle violenze subite dalle persone migranti, ma anche sulle matrici storiche, politiche e sociali all’origine di quelle sofferenze, come ci ha ricordato Monica Massari, docente di Sociologia della Memoria all’Università Statale di Milano. Serve una resistenza culturale, ha detto in apertura dei lavori Annalisa Comuzzi in rappresentanza della Rete Dasi (Diritti Accoglienza Solidarietà Internazionale) del Friuli Venezia Giulia; serve soprattutto e prima di tutto uscire dall’indifferenza e guardare con gli occhi del cuore i poveri di cui tocchiamo le ferite — ha detto don Pierluigi Di Piazza, fondatore del Centro di accoglienza e di promozione culturale Ernesto Balducci, nella sua ultima sofferta uscita pubblica — e poi chiedersi: come mai l’umanità è tornata ad agire in questo modo?
Per vedere o rivedere i vari interventi:
Sul canale YouTube di Altreconomia ogni parte è stata suddivisa in capitoli, così che si possa ritrovare agevolmente l’intervento d’interesse. I video sono pubblicati anche sul profilo Facebook di RiVolti ai Balcani e sul canale del Centro Ernesto Balducci (la versione in inglese è invece sulla pagina del Centro di Accoglienza Ernesto Balducci).
https://www.youtube.com/playlist…
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