Con l’addio di Ciriaco De Mita, all’età di novantaquattro anni, se ne va un uomo ma, soprattutto, un’idea di politica, di società e di vita. Se ne va innanzitutto “un intellettuale della Magna Grecia”, la definizione è dell’avvocato Agnelli, una personalità secondo cui la politica non era solo potere ma, più che mai, pensiero, analisi, comprensione dei fenomeni economici e sociali. De Mita, come molti altri protagonisti della Prima Repubblica, era popolare senza mai essere populista, aveva un seguito, un elettorato e una visione del mondo chiara e articolata, un senso profondo delle radici e un amore per le persone che, nel suo caso, si rivelava anche nella peculiarità di un accento inconfondibile. È stato eccome un uomo di potere, ai massimi livelli, capace di astuzie, compromessi e anche di una discreta “occupazione” del servizio pubblico, da qualcuno ribattezzato ironicamente “TeleNusco”, negli anni in cui il nostro era segretario della Democrazia Cristiana e, successivamente, presidente del Consiglio. Fatto sta che quella RAI dava spazio ai migliori giornalisti italiani, aveva come presidente Sergio Zavoli ed era caratterizzata da un’indipendenza che oggi ce la sogniamo, per il semplice motivo che esisteva ancora una classe dirigente sicuramente desiderosa di esercitare la propria egemonia ma comunque dotata di un minimo di buon senso e di rispetto per il prossimo.
La grandezza di De Mita stava, poi, nella sua capacità di analizzare i processi storici, capirli nel profondo e non lasciarsene travolgere, mai, per nessun motivo, il che gli ha consentito di affrontare con relativa serenità tempeste che avrebbero abbattuto quasi chiunque altro. Entrò in Parlamento l’anno in cui venne assassinato John Fitzgerald Kennedy e da allora non ha smesso per un istante di occuparsi di politica attiva, tornando nella sua Nusco all’età di ottantasei anni, dopo aver ricoperto ruoli nazionali di primo piano, con il preciso intento di restituire alla sua terra, da sindaco, ciò che essa gli aveva dato da ragazzo. Un amore viscerale per la politica e per la comunità, dunque, l’umiltà di un personaggio di rilievo che poteva anche sembrare arrogante e burbero ma non lo era affatto, capace come pochi di ascoltare e confrontarsi con gli altri, facendo prevalere il ragionamento su ogni altra qualità e la virtù del dialogo sull’urlo, così di moda negli ultimi tempi ma altrettanto dannoso e inconcludente.
Ciriaco De Mita apparteneva a quella politica profonda, radicata, attaccata alla terra ma capace di volare alto, fatta da uomini che sapevano trovare le parole giuste per farsi ascoltare tanto alla Casa Bianca quanto in un mercato rionale, per convincere i grandi e le persone comuni, sempre in tensione, desiderosa di studiare e capire, mai appagata, inquieta come solo coloro che sanno di non sapere e desiderano approfondire, conoscere e spingersi al di là dei propri limiti sanno essere.
Nell’ultimo periodo della sua lunga esistenza, lo abbiamo ammirato soprattutto per il richiamo ai valori, primo fra tutti quello a una certa idea di politica, per la contestazione ferma e senza infingimenti che mosse a coloro che volevano rottamare la storia e il percorso delle culture politiche che li avevano preceduti e per la contrapposizione nei confronti del “nuovismo” che altro non era che la negazione di tutto ciò in cui aveva sempre creduto. Affrontò determinate battaglie con la modernità di chi sa porre l’orecchio a terra e ascoltare le voci della gente, spiegò le sue ragioni e mise in risalto la pochezza di idee di chi pensava di poter avere la meglio solo perché più giovane e in forze, dovendosi invece arrendere di fronte a un argomentare pacato ma incisivo, in grado di esprimere complessità senza mai generare noia negli spettatori. Al pari di Scalfaro e altre figure di primo piano della fu Balena bianca, De Mita è stato un custode strenuo dei principî costituzionali, non ammettendo deroghe, non transigendo sulla difesa della democrazia e non accettando che venisse messo in discussione tutto ciò in cui aveva sempre creduto e per cui aveva speso l’intera vita. Non accettava, inoltre, le scatole vuote, i contenitori senza contenuti, i partiti di plastica, gli sproloqui senza proposte, le formule magiche e la perdita di umanità in un contesto in cui ammetteva anche la lotta aspra ma non la barbarie. E qui torniamo al pensiero, alla forza quasi filosofica che lo ha caratterizzato in ogni circostanza, a quel suo essere diverso, speciale, unico nel suo genere, rimpianto anche da chi non lo avrebbe mai votato ma non può che riconoscerne il coraggio, la coerenza e la saldezza degli ideali.
Amava molto un verso di García Lorca: “Quando morrò seppellitemi con la mia chitarra sotto l’arena”. La sua chitarra era la politica, ma noi ci auguriamo che non se ne sia andata per sempre con lui e con il suo intenso cammino.
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