Della tragedia del commissario Calabresi è stato già detto e scritto tutto ciò che si avrebbe potuto dire e scrivere. Mi limiterò, pertanto, a compiere alcune riflessioni su un argomento che mi sta a cuore come nessun altro: l’umanità. Penso alla famiglia Calabresi e alla famiglia Pinelli, all’incontro fra Gemma e Licia, le rispettive mogli, al fatto che in entrambe le abitazioni, sia pur in circostanze diverse, un padre e un marito non sia tornato a casa, penso alla sofferenza di bambine e bambini costretti a crescere senza una figura essenziale e mi interrogo. Mi interrogo su questo mezzo secolo perduto, sul dilagare dell’odio, sulla violenza che all’epoca sfociava in titoli aberranti e delitti atroci, sull’esaltazione acritica della barbarie e sul fanatismo che travolse una generazione fino a dividerla in fazioni che l’avrebbero condotta a una guerra civile neanche troppo a bassa intensità, frutto pure delle conseguenze nefaste della Guerra fredda e della connessa Strategia della tensione. E mi interrogo sull’oggi, su quest’Italia anestetizzata, senza politica, come temeva Pasolini, senza partiti, senza passione civile e senza impegno, senza entusiasmo e anche senza giovani, se si considerano le stime relative all’andamento demografico.
Attualmente, e per fortuna, tragedie come quelle di Pinelli e Calabresi, probabilmente, non potrebbero verificarsi. Fatto sta che non potrebbero verificarsi nemmeno i cortei e le manifestazioni che ancora vent’anni fa erano all’ordine del giorno e che, al netto della violenza e di episodi esecrabili da condannare senza appello, innervavano la nostra democrazia. La repressione c’è stata eccome: selvaggia e pericolosa. E ha condotto all’inaridirsi del dibattito, alla mancanza di quello che potremmo definire slancio vitale, quella gioia dello stare insieme che ha caratterizzato per decenni ragazze e ragazzi e che oggi sembra essere venuto meno. Ragionare di Calabresi mezzo secolo dopo è dunque difficile, quasi impossibile. Bisogna collocarlo nella sua epoca storica e astenersi da ogni giudizio. Bisogna evitare epiteti come il “Commissario Finestra” e condurre la nostra analisi fuori dai tribunali, perché è nella società che si deve riflettere su ciò che è stato e su ciò che sarebbe potuto essere. Non sorprende, ahinoi, che alcuni dei più aspri contestatori di allora nei decenni successivi si siano trasformati in perfette macchine di potere. Né sorprende che, in determinati casi, abbiano ora una gran voglia di menar le mani a proposito della guerra in Ucraina, forse memori del tempo che fu e dei disastrosi fasti di una gioventù ormai andata ma evidentemente ancora foriera di adrenalina.
Calabresi fu vittima di una campagna stampa durissima, proprio come Pinelli era stato vittima del pregiudizio e della crudeltà più estrema per il suo essere anarchico e sognatore, un utopista che studiava l’esperanto, un ferroviere che ricordava in parte il personaggio della “Locomotiva” di Guccini, un idealista indomito cui ho sempre avvertito il dovere morale di voler bene, non solo per la sua tragica sorte ma anche per ciò che ha rappresentato in vita. Lo animava un desiderio perenne di combattere contro l’ingiustizia, un amore per il prossimo che andava oltre se stesso e una curiosità verso il mondo che era la ragione stessa della sua esistenza.
Luigi Calabresi, dal canto suo, era un uomo di Stato e a noi piace ricordarlo con quest’espressione, mista alla gentilezza d’animo della signora Gemma, al suo percorso verso il perdono, al suo rifiuto dell’odio, alla sua pace interiore e alla sua ricerca del senso della vita nonostante lo strazio che è stata costretta a subire.
Cinquant’anni dopo ci troviamo a fare i conti con una democrazia a metà, con un’Italia fragile e sconfitta, con una politica stanca, con generazioni che non hanno un domani e con la difficoltà collettiva anche solo di immaginare un futuro.
Quel 17 maggio del ’72 si chiuse per sempre una storia e ne ebbe inizio un’altra, di gran lunga peggiore. La cattiveria divenne glamour, ebbe successo, mieté vittime a ripetizione e, in particolare, la collettività nel suo insieme. I “trenta gloriosi” volgevano al tramonto. I cinquanta ingloriosi, purtroppo, sono ancora fra noi e non sembrano destinati a finire, anzi.
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