Tornavamo in auto dal Film Fest, una manifestazione accampata sui prati a margine del lago dove i ragazzi arrivavano a frotte, a centinaia, nelle notti calde di metà luglio, sedendosi direttamente sull’erba o stendendo una coperta.
La giornata era stata afosa, eravamo arrivati a Pieve di Soligo con la macchina scoperta. Fuori c’erano 31° ma non avevamo bisogno di condizionatore; Amanda si era avvolta la testa in un fantasioso foulard per ripararsi dal sole, o per tenere fermi i capelli dal turbinio del vento. Nell’uno o nell’altro caso una trovata maliziosa, da film glamour anni Cinquanta, Grace Kelly e Cary Grant. Ci piaceva respirare l’aria profumata dei boschi che attraversavamo correndo verso l’albergo. L’organizzazione ci aveva riservato l’Hotel Contà, stanza 201. Una camera deliziosa, nitida, luminosa, completa di una cabina doccia perfetta, con la temperatura dell’acqua regolabile al grado centigrado e talmente spaziosa da poter ospitare uno shower party. Vorrei vivere in albergo, quante volte me lo sarò ripetuto incontrando strutture di collaudata accoglienza.
Sbrigato il rito degli accrediti all’ufficio ospiti del festival, acquisiti il badge di riconoscimento, la borsa di stoffa con il logo stampato in bella evidenza, le amenities, il catalogo e altro materiale informativo, logistico, turistico, non rimaneva che tuffarsi nella selva dei programmi in elenco. Consultando principalmente gli orari dei film in concorso per i quali ero stato nominato in giuria.
Il giorno già volgeva all’occaso quando avevamo raggiunto lo spazio delle proiezioni, un vasto spettacolare scenario di verzura. Le iniziative erano molteplici, estrose, stimolanti. Così avevamo trascorso la serata a parlare di cinema e delle sceneggiature presentate in competizione, attorniati da un pubblico di giovani, nugoli di zanzare in picchiata, e un’atmosfera carica di romantica elettricità nell’area festivaliera compresa tra il piccolo lago e Revine, il borgo pressoché fatiscente che aveva aperto le strade, i vicoli e le antiche corti ai vari incontri in calendario. Un allestimento fiabesco. Ero proprio felice di esserci, come non mi capitava da tempo, ma un po’ meno a mio agio alla prospettiva di dover presentare il mio ultimo libro. Da qualche tempo mi capitava, parlando in pubblico, di sentire la mia voce, e non mi piaceva, venivo colto da una forma di tedio, di saturazione delle mie stesse parole. Eppure erano tutti simpatici, spontanei, solleciti nei miei confronti, mi trovavo bene, ero stato accolto con l’affettuoso rispetto dovuto al decano tra i presenti; dopo una vita trascorsa a figurare il più giovane in qualsiasi riunione, da un giorno all’altro mi trovavo di fronte a questa sgradita novità. Forse era stato quel brusco soprassalto a condizionare il mio umore, chissà: ma quando era avvenuto il bieco sortilegio?
Mi contraddico subito, amo moltissimo stare in mezzo ai giovani, abbattere le sottili paratie delle età all’interno di queste bolle sospese e protettive, ideali per scongiurare le conseguenze del naufragio; niente tempo anagrafico, niente differenze generazionali, non più aridi numeri contrapposti, ma soltanto esperienze a confronto. E quella sera, prolungata nella notte chiara, mi era apparsa perfino magica per l’opportunità di scambio che mi stava riservando nella comune passione per il mondo della celluloide; il mio vissuto appariva soltanto un fastoso vascello con più vele.
Avevamo cenato gomito a gomito sulle tavolate di legno, gustando in pari grado cibo appetitoso e nuove scoperte, sorseggiando il vino che in quella valle è degno degli dei. Sul grande schermo infisso in riva al lago, erano passati i numerosi cortometraggi già visti e valutati in streaming, ed ora esposti al pubblico in trepidante attesa sul filo del traguardo. Risuonavano accavallandosi tutte le lingue d’Europa, e non sembrava affatto di stare nella Torre di Babele bensì in un Eden in cui ci si comprendeva senza bisogno di traduzione. Questo il vero miracolo dell’arte, che accomuna tutti i cittadini del mondo al di là di ogni confine geografico, politico, linguistico, culturale, religioso, di razza e di colore. L’arte unisce e non separa, in nome dell’arte nessuno si è mai ammazzato, a qualsiasi latitudine o nazione appartenga. Se riuscissimo ad abbracciare la religione dell’arte, nel nostro pianeta ci sarebbe soltanto pace e bellezza, amore e armonia.
Poi era seguita la cerimonia delle premiazioni, con la lettura pubblica delle motivazioni, i commenti, le dichiarazioni, i ringraziamenti, i progetti sognati per il futuro; e si era fatto piuttosto tardi quando insieme ad Amanda siamo rimontati in auto per tornare in albergo; ma senza abbassare la capote, ancora vaghi di guardare le stelle e di ascoltare il fruscio del vento attorno a noi. Eravamo trasognati e leggeri come elfi, e quasi subito eravamo piombati nel buio della strada che si inerpicava nel bosco con facili tornanti. Pochi chilometri e saremmo giunti a destinazione. Invece di parlare ci ascoltavamo muti, lasciando decantare gli argomenti e accontentandoci delle onde mentali. Salivamo ad andatura danzante, nessuna voglia di correre, di incrinare con il rombo del motore quel silenzio sacro e profondo, quel brivido a fior di pelle che si prova sconfinando nel cuore occulto della natura. I fari illuminavano l’asfalto, ma a ogni curva sferzavano anche gli alberi che si ergevano ai lati, gigantesche sentinelle della fitta foresta. Poi all’improvviso, all’emergere di un tornante, ci era apparsa una massa scura proprio al centro della carreggiata; avevo scalato rapidamente la marcia e rallentato fin quasi a fermarmi: davanti a noi si stagliava, maestoso, un cervo, che ci scrutava con piglio sfidante.
“Un cervo!”, aveva sussurrato incredula Amanda con voce soffocata, timorosa di farsi sentire. Intanto mi ero arrestato, senza spegnere il motore che al minimo emetteva nulla più di un sospiro. L’animale non smetteva di scrutarci, senza muoversi, gli occhi puntati nella nostra direzione. Sembrava gigantesco con quel suo palco di corna ramificate alla sommità del capo, supremo ornamento di un regnante.
“Forse è abbagliato, spegniamo i fari.” Avevo suggerito in un fiato già azionando la leva accanto al volante. Era scesa di colpo l’oscurità, ma non il buio, perché era notte di luna e dal cielo pioveva polvere d’argento. L’animale era snello e potente, doveva trattarsi di un esemplare giovane tanta era l’energia che emanava da tutto il corpo. Si era messo in posa con una immobilità statuaria, offrendoci un’immagine di sé arcaica, quasi religiosa.
“Dio quanto è bello…” Mormorava Amanda affascinata, visibilmente sopraffatta dalla sua figura di creatura mitologica. Un vero dio. La nostra auto nera, silenziosa, non rappresentava per lui un pericolo ma piuttosto una curiosità. Rassicurato, ci fissava con aria di superiorità guerriera, poi d’un tratto aveva scosso le corna ed emesso un sordo bramito, prima di compiere uno scarto e spiccare un balzo improvviso come avesse le ali ai piedi, immergendosi nella boscaglia con indescrivibile eleganza. Sparito.
Eravamo entrambi molto impressionati, non riuscivamo a proferir verbo ipnotizzati dalla visione soprannaturale. Chi aveva mai visto un cervo da così vicino!
“E’ il cervo della regina”, aveva bisbigliato Amanda.
Avevamo assistito di recente al film The Queen di Stephen Frears, protagonista Helen Mirren in una interpretazione memorabile. Gli arricchiti dell’ultima ora, nuovi possidenti terrieri confinanti con le tenute dei Windsor, stanno dando la caccia, sovreccitati, a un magnifico cervo che da anni sfugge a ogni agguato, e difficilmente si rende visibile. Nessuno è riuscito ancora a braccarlo, e abbatterlo equivarrebbe ad aggiudicarsi un blasone. Ma non per la regina Elisabetta, inquieta e solitaria nella brughiera, alla quale il quadrupede appare a pochi metri in tutta la sua dominante bellezza, autentico sovrano della sua specie. Tra loro corre uno scambio di sguardi alla pari, tra nobili di sangue, entrambi pervasi da reciproco rispetto e stupore. “Vai, scappa, non farti prendere” lo esorta la regina emozionata, trepidante per la sua sorte: “Sciò, sciò, via via!”. Lo incalza agitando le mani. E il superbo animale si allontana, fiero, con imponente incedere da monarca. Ucciderlo non sarebbe affatto una valente impresa di caccia, ma soltanto una bestemmia contro Dio.
Qualcosa di simile a quella apparizione, era toccato in sorte a noi, vai a capire perché. Turbati e felici abbiamo continuato a parlarne fino all’albergo e poi in camera: quelle corna ramificate, dritte e minacciose, non meno corrusche di un elmo crinito o di una corona lucente, quell’agile scomparire degno di un atto di magia, si era forse fuso alla nostra preghiera prima di addormentarci.
E la mattina, a colazione, avevamo continuato a ricostruire l’incontro, a rilanciarci ogni più piccolo dettaglio dell’accaduto.
“Forse la visione è anche un messaggio, – avevo azzardato con tono frivolo – giochiamo i numeri al lotto.”
“Perché no?!.” Aveva replicato Amanda a sorpresa, mi sarei piuttosto aspettato da lei una battuta di scherno che sottolineasse ancora una volta il mio rincorrere le fole.
La mattinata si prospettava libera da impegni con il festival. Ci eravamo recati al paese, passeggiando svagati alla ricerca di una ricevitoria. L’avevamo infine trovata in un bar, che però aveva soltanto la licenza per il Superenalotto.
“Va bene, compiliamo la schedina”. Aveva stabilito lei.
“Davvero vuoi farla? Non mi stai prendendo in giro?”
“Perché dovrei.”
Avevamo chiesto di consultare La Smorfia e scherzando, ma solo in apparenza, ci siamo messi a testa bassa a ricavare i numeri dell’incontro fatato, come si trattasse di un sogno. Un numero già l’avevamo, il 12, incontrovertibile, perché sebbene possa sembrare inventato l’incontro con il cervo era avvenuto esattamente allo scoccare della mezzanotte: l’ora del sabba e delle streghe, ma anche degli angeli custodi e delle presenze magiche della foresta, insomma l’ora, anzi il minuto sospeso, in cui realtà e mistero si sfiorano, indistinguibili. Non avevamo certo dimenticato gli occhi del cervo l’attimo prima che volasse via in quel suo slancio poderoso da acrobata, il suo sguardo espressivo al pari di un essere umano: “Io ci sono, sono vero, – sembrava avesse voluto avvertirci – credete a me come si crede ai prodigi e agli oracoli”.
In poco tempo, sfogliando elettrizzati il grosso volume degli arcani, avevamo individuato i sei numeri che erano richiesti per compilare una colonna; la seconda colonna l’avevamo riempita sbrigativamente, a caso. Avevamo pagato ed eravamo usciti con la schedina nella borsetta di Amanda, garruli come monelli eccitati per averne appena combinata una. L’estrazione non ci avrebbe fatto attendere, era prevista per il giorno dopo.
Avevamo appuntamento per pranzo in una trattoria vicina alla sede del Festival. Era stata una riunione conviviale di congedo, una festosa ricongiunzione dello staff e degli ospiti del festival, tre tavolate vocianti con primi piatti di tradizione locale, verdure, carne, vino e cocomero. Avevamo indugiato allegramente a parlare, saltando da un argomento all’altro, con un atteggiamento di rincorsa, di insaziabilità, come spesso capita quando si è condivisa un’impresa eccitante. Tra noi c’era anche il vincitore del primo premio, un giovane brillante che proveniva dal disegno e dalla graphic novel. Mi era simpatico, condividevo le sue idee, credeva buon per lui in un cinema etico, cioè sostenuto, qualunque fosse il tema prescelto, da una visione personale. Prima di separarci, a fine pranzo e dopo un buon caffè, c’era stato il solito scambio di indirizzi e di promesse solenni di rivedersi presto, il più presto possibile. Inseguendo in buona fede le chimere suscitate dall’entusiasmo del momento, già pronte a dissolversi nel cielo abbagliante di luce. Però in quel desiderio sincero per quanto labile, ci eravamo ricolmati a gara di saluti e di abbracci.
Con Amanda eravamo tornati a braccetto verso la nostra macchina scoperta e piena di sole. Ripensavo ancora all’apparizione del cervo e alle parole che mi aveva regalato un giorno Raffaele La Capria, il quale non ha mai nascosto la sua intima tenerezza nei confronti degli animali: “Perché anche loro come noi sono buttati su questa terra senza sapere perché”.
Il giorno successivo eravamo a casa, impegnati a riorganizzarci nella vita di sempre. Soltanto nel pomeriggio, uscendo, avevo comprato il giornale ed ero rientrato senza neppure aprirlo, distratto da una telefonata di lavoro. Conclusa la conversazione avevo visto Amanda dritta in piedi davanti a me come una scolaretta alla cattedra per l’interrogazione, il quotidiano aperto tra le mani, e nel volto uno stupore serio, concentrato.
“Che c’è?”
“Vuoi sapere una cosa?”
“Che cosa?”
“Abbiamo vinto.”
“Vinto cosa?”
“Ma come cosa, al Superenalotto. Abbiamo vinto!”
Non pensavo più alla nostra giocata, proprio era lontanissima dalla mia mente.
“Abbiamo vinto con la nostra schedina?”
“Sìììì!!!”
“Allora siamo milionari: fammi vedere.” Avevo tentato di strapparle il giornale che lei tratteneva al petto e non cedeva.”
“Purtroppo no, abbiamo fatto cinque. Ma è sempre una bella cifretta…”
E mi aveva messo la pagina del quotidiano sotto gli occhi.
“Però! Dobbiamo festeggiare, queste sì che sono notizie. Pensa se avessimo centrato il 6. E il montepremi a chi è andato?”
“Ancora intatto, non l’ha vinto nessuno.”
“Maledizione: che numero abbiamo sbagliato?”
“Il 12.”
“Ma guarda! Eppure era mezzanotte in punto quando è apparso il cervo, ricordo benissimo il quadrante dell’orologio sul cruscotto. Forse ha voluto tirarci uno beffa quel mascalzone.”
“No, siamo noi a non aver capito: è uscito il 24, l’ora esatta della mezzanotte. Se avessimo ragionato meglio, se ci avessimo creduto di più…”