L’uccisione della notissima giornalista dell’emittente al Jazeera Shireen Abu Akleh è stato un omicidio puro e semplice, attuato a freddo dall’esercito israeliano. Non esistono attenuanti. Le testimonianze sono univoche.
Le successive dichiarazioni del governo di Tel Aviv appaiono crudeli e insieme patetiche. La giornalista era spesso nel campo profughi di Jenin e il suo volto rappresentava il racconto quotidiano della storia contemporanea di una terra dimenticata.
Basta. La Palestina è stata espulsa anche dal villaggio mediale. Oppressa due volte: nei diritti negati e nella cancellazione della memoria. Il dramma dell’occupazione delle terre da parte dei coloni o l’aggressione costante perpetrata da un governo autoritario e oppressivo sono rimossi.
L’Occidente risolve i suoi sensi di colpa verso il popolo ebraico lasciando mano libera a politiche repressive inaudite. Siamo di fronte ad uno dei peggiori governi del mondo, che applica verso i palestinesi una vera e propria apartheid. Le varie risoluzioni votate dalle Nazioni Unite sono considerate carta straccia.
L’informazione è sotto attacco e non da oggi, se è vero che si contano almeno 83 decessi dal 1972 in poi. Basti ricordare, ad esempio, le vicende di Simone Camilli o di Raffaele Ciriello, che hanno il diritto almeno ad una memoria adeguata. Morti e feriti si uniscono alle angherie e alle censure. Non si sa e non si deve sapere.
Quello che è successo ai funerali di Shireen Abu Akleh è stato, poi, terribile e insopportabile.
Serve l’istituzione urgente di una commissione internazionale di indagine, che veda protagoniste le associazioni dei giornalisti, a cominciare da IFJGlobal e da EFJEurope. E pure la Federazione della stampa italiana.
È doverosa una svolta, che ripristini innanzitutto la verità e riconsegni dignità ai palestinesi.
(foto Globalist)