Sono trascorsi più di cinquemila anni da quando si divinavano oracoli sulle rive dell’Eufrate. Ma non si è ancora spenta la suggestione che il concetto stesso di verità contiene. Anzi: la solidità della rivelazione è sempre più soltanto un’apparenza etimologica, insidiata e squarciata dal crescente rumore di fondo che tutto confonde.
Rovesciando il paradigma della divinazione, Monica Andolfatto, Laura Nota e Roberto Reale – autori di “Aver cura del vero”, uscito nello scorso mese di Aprile per i tipi di “nuovadimensione” – trovano il coraggio necessario per riutilizzare la parola magica: “vero”, declinandola come una categoria culturale, una prassi professionale, un’attitudine politica, un obiettivo collettivo. E lo fanno raccontando un’esperienza originale di formazione e condivisione dei saperi. Come autentici illuministi, sanno fare tesoro dei dubbi e delle incertezze, perché è la ragione che le suggerisce e non più un’oscura divinità ancestrale.
Alle spalle del libro c’è stato, infatti, nell’Anno Accademico 2020-21, il corso di Alta Formazione “Raccontare la verità. Come informare promuovendo una società inclusiva”: un corso marcatamente interdisciplinare, al quale hanno contribuito docenti di economia, di psicologia, giornalisti, esperti di inclusione e di diritto internazionale. Organizzato dall’Università di Padova, della quale Laura Nota – già prorettrice – è ordinaria di Psicologia dell’orientamento e di Psicologia dell’inclusione, è stato un corso ambizioso e direi quasi visionario, al quale anche chi scrive ha immeritatamente partecipato con una piccola docenza: si perdoni, dunque, la partigianeria.
Viene in soccorso, a tal proposito, l’introduzione di Carlo Verdelli – già alla guida del quotidiano “la Repubblica” e delle news Rai, oggi direttore del settimanale “Oggi” – intitolata, manco a farlo apposta: “Il giornalismo è partigiano”. Vi si legge, tra le testimonianze personali dell’autore, che «il giornalismo è partigiano, non esiste per me un altro tipo di giornalismo intimamente onesto. Non significa rivendicare un’appartenenza politica ma essere limpidi con il lettore: ogni cosa che leggerai è frutto di un’interpretazione». E di interpretazioni, analisi e prospettive il nostro libro è davvero ricco.
Tutto parte da una presa di coscienza, maturata compiutamente durante l’esplosione epidemica del Covid-19: il frastuono mediatico, che qualcuno ha chiamato “infodemia”, ha reso indistinguibile troppo spesso il vero dal falso. Nebbia semantica e caos espositivo – nell’ecosistema rabbioso e aggressivo della società dello spettacolo – hanno via via reso inefficaci le strategie di debunking e di fact-checking, perché le fake-news, scrive Roberto Reale, «sfruttano i pregiudizi delle persone, circolano molto più velocemente delle correzioni e tendono a persistere più a lungo in rete». Ma nella realtà del nostro tempo tutto è inter-connesso: i mali di un settore della società non sono slegati da tutto il resto; i limiti nell’esercizio di un diritto si riflettono sul godimento di tutti gli altri. Le distorsioni sono fecondi brodi di coltura di altre distorsioni. Il problema più grande – questo è emerso con forza durante il corso padovano – non è di ordine epistemologico: la disinformazione è un problema di ordine eminentemente politico.
Ma di che cosa è testimonianza questo libro? Perché è un consuntivo importante?
Leggendolo appare chiaramente: man mano che le criticità si accumulavano e i problemi venivano sviscerati analiticamente, gli ideatori, gli organizzatori e i partecipanti al corso hanno sempre più convintamente scelto la via della costruzione, l’ottimismo della volontà. Monica Andolfatto, giornalista del Gazzettino e Segretaria del sindacato dei giornalisti del Veneto, lo spiega chiaramente: «agire contro le fake-news significa stimolare il pensiero critico (…) solo un’educazione critica all’uso dei media e al lavoro nei media può essere un antidoto efficace alla disinformazione». In questa prospettiva quello che poteva sembrare un azzardo o una scommessa temeraria si è rivelato come un successo: su 47 iscritti (paganti!), 41 professionisti del sistema dei media hanno sostenuto la prova finale. Trattandosi di giornalisti, che molto spesso indossano assai poco umilmente la veste del “tuttologo”, è quasi un miracolo: parola di giornalista.
Dal libro si evince un fenomeno promettente: quello che è nato a Padova è un “laboratorio” animato e abitato da professionisti che “co-costruiscono” (la definizione è di Laura Nota) «una vision alternativa», ragionando sui problemi, confrontandosi con gli esperti, mettendo in comune le proprie esperienze. Tutti i temi e le criticità del sistema dell’informazione vengono passati al vaglio. Emerge con chiarezza il legame tra qualità del lavoro e qualità del prodotto, l’informazione. Spicca, tra i problemi più comuni e brucianti, quello della precarietà, che impedisce – negando la dignità stessa al lavoro – di rispettare i criteri essenziali di una buona attività professionale: la riflessività e l’accuratezza, su tutti, che costituiscono non solo i caratteri essenziali delle buone prassi professionali, ma incarnano le garanzie indispensabili nei confronti del pubblico. Una precarietà, si diceva, che accomuna i lavoratori di ogni genere: «ormai tra un reparto di fabbrica e una redazione c’è poca differenza: diminuiscono gli operai così come i giornalisti, aumentano in maniera esponenziale i carichi di lavoro (…) e si viene licenziati con una mail: è toccato agli operai della GKN di Campi Bisenzio (Firenze), è toccato ai redattori del “Trentino” (Trento)».
Da questo intreccio di idee e consapevolezze sconsolate scaturisce la necessità di uscire dalla trappola, di superare i limiti che vanno posti sotto la lente dell’analisi.
È ancora Laura Nota che scrive: «si vuole far superare l’idea che ciò che viviamo sia inevitabile, basato su leggi non modificabili di tipo economico; che le ingiustizie, le discriminazioni e le disuguaglianze siano una sorta di fatalità». E invece «non è scritto da nessuna parte che si debba continuare così: è possibile, tramite un processo cognitivo ed emotivo, riappropriarsi della propria umanità mettendo al centro la lotta alla sofferenza propria e altrui e anche del nostro ambiente». Un obiettivo ambizioso ma possibile: lo testimonia la trasformazione della forma mentis riscontrata tra i partecipanti: è ciò che emerge dalle risposte che i quarantuno hanno fornito ai questionari loro somministrati prima e dopo il corso. Accuratezza, inclusività del linguaggio e possibilità di avvicinare effettivamente la verità: sono temi e sensibilità usciti potenziati da questa esperienza. Ecco come l’ottimismo della volontà si traduce in progetto, quindi in un orizzonte esplicitamente politico, attivo e partecipato.
Tale orizzonte viene attualizzato dalla riflessione di Marco Mascia (uno degli autori, docente di Relazioni Internazionali all’università di Padova), che spiega come quelli all’espressione e alla corretta informazione siano inclusi tra i diritti sanciti dalle tante Carte che costellano l’apparato giuridico delle Nazioni Unite. In particolare Mascia denuncia l’attacco rivolto contro il multilateralismo: una declinazione della perdita di libertà e dello slittamento verso forme autoritarie e verticistiche di governo che non può mancare di produrre danni anche nell’ambito della libertà d’informazione, con la conseguenza di indebolirne tutti gli operatori, giornalisti compresi.
Di tutto questo lavorìo, la morale – se mai è possibile desumerne una soltanto da un volume tanto denso – ce la offre ancora Roberto Reale, nel capitolo intitolato: “Dal tutti contro tutti a un sentire comune”. L’assunto è chiaro: siamo nell’epoca dell’individualismo più spinto, l’ “Era del singolo”, per citare un saggio di Francesca Rigotti uscito nel 2021; siamo nel “Secolo della solitudine”, altro titolo di Noreena Herz, del 2020. Ecco: traendo esempi e spunti dalla sue vaste letture, Reale prova ad azzardare una sintesi molto suggestiva. Quasi tutti i problemi emersi e affrontati durante il corso padovano sembrano collegati con il paradigma relazionale più malfunzionante della nostra epoca: l’eclissi dell’Altro dal nostro cielo individuale.
Se si curasse questa distorsione, pare di capire, si riuscirebbe ad affrontare alla radice tutto il monumentale impaccio che avvelena scienze e coscienze, che confonde il falso col vero, che porta all’autocrazia, al complottismo più assurdo, infine persino alla dissoluzione dei diritti, tanto individuali e che collettivi. «Non sarà arrivato il momento – si chiede Roberto Reale – di chiederci quanto e quale spazio ci sia per un’informazione rivolta all’insieme della cittadinanza oggi, nell’era del singolo che stenta a vedersi parte di una comunità?».
Insomma: “Aver cura del vero” è un libro difficile. Ma è anche un libro “necessario”. Perché è davvero ora che si torni a ragionare sul ruolo sociale dell’informazione con onestà intellettuale, con sincerità e anche con l’indispensabile spregiudicatezza che si accompagna sempre a chi pone molto in alto l’asticella delle sfide che sceglie di affrontare. Alla faccia degl’incantesimi, degli antichi sacerdoti e dei misteri più arcani.
Monica Andolfatto, Laura Nota, Roberto Reale
“Aver cura del vero.
Come informare e far crescere una società inclusiva
Giornalismo e ricerca: storia del Laboratorio Padova”
Edito da: “nuovadimensione”, un marchio di Edicilo editore.
Gli altri interventi inseriti nel volume sono di: Carlo Verdelli, Raffaele Lorusso, Maria Cristina Ginevra, Ilaria Di Maggio, Sara Santilli, Enrico Ferri, Giuseppe Giulietti, Marco Mascia, Carlo Bartoli, Salvatore Soresi, Mirco Tonin.