Ero a cena con Giovanni Falcone e con Francesca Morvillo, una sera del 1987, in casa di un amico, Lucio Galluzzo, a Palermo: a mezzanotte andarono a sposarsi. «Come due ladri», dissero poi, solo quattro testimoni, così vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali, e si erano ritrovati, con la voglia di andare avanti insieme, fino in fondo, fino alla strada che dall’aeroporto conduce in città . «Perché non fate un bambino?» chiesero una volta a Giovanni. «Non si fanno orfani, rispose, si fanno figli».
L’aria della Sicilia non sa di zagare, di mare o di gelsomini, odora di domande. La prima, la più angosciosa: chi uccideranno adesso, a chi toccherà? E perché proprio in questo momento? Il dottor Giovanni Falcone sapeva. Anche Dalla Chiesa cadde perché era solo, e senza poteri. E qualcuno che adesso piange, farebbe bene, per decenza, a tirarsi da parte. «Perché uccidano, spiegava Falcone, ci vuole una agibilità politica». Debbono sentire che, in qualche modo, sei abbandonato a te stesso. Ti hanno segnato nel libro, e non dimenticano.
Mi ha raccontato Tommaso Buscetta che, quando era un giovanottino, appena arruolato dalle cosche, ricevette l’ordine di far fuori un traditore. «Ma lui, dice Buscetta, era furbo, e andava sempre in giro col suo bambino. Lo teneva per mano, e allora non si sparava ai ragazzi, ai generali e ai magistrati, c’erano delle regole. Abbiamo aspettato dodici anni, poi andò a spasso da solo, e la sentenza venne eseguita».
Falcone è stato discusso e combattuto: dal Corvo, che cercava di sporcarne la figura, dagli scontri con Meli, un altro giudice, e poi con Cordova, che lo ha battuto nelle aspirazioni, nella carriera. Buscetta lo aveva anche avvertito: «Se lei va via da Palermo, lei non si salva». Falcone e Buscetta, si può dire, si stimano. Sono tutti e due siciliani: si capiscono e si rispettano. Falcone è coraggioso, acuto, e conosce l’argomento: e tratta l’imputato da uomo. «E’ onesto, dice Buscetta, e non è un persecutore. A Vincenzo Rimi sequestrarono anche le vacche, non mangiavano più, nessuno le accudiva, e le bestie creparono. «Il dottor Falcone si muoveva nei limiti della legge; non sbatteva dentro tua moglie se non era indiziata». Quando abbatterono Lima, Buscetta parlò : «Ora tocca a Falcone. Debbono dimostrare che sono loro che comandano, che hanno in mano il bastone e il destino della nostra isola». Si salva, spiega Don Masino, chi fa vita irregolare, niente abitudini, casa, ufficio: «Aveva tanto studiato la mafia, commenta ora, ma non sapeva con chi aveva a che fare. Ho perso un padre, un fratello». Sta da qualche parte, in America, e quando vuole, quando può, passano anche mesi, chiama. Un saluto. La voce è sempre la stessa, l’intelligenza anche: «Non sono un pentito, ribadisce, rinnego Cosa Nostra». Accenna a un politico molto in voga: «E’ un cretino, un cretino qualsiasi e puzza come un pesce che si secca al sole, da quattro o cinque giorni». La comunicazione si interrompe. Era commosso.
Rivedo la loro storia, come me l’hanno detta i due protagonisti. Il primo magistrato col quale Buscetta si abbandona è il dottor Giovanni Falcone: si incontrano a Brasilia, e il giudice istruttore ha subito l’impressione di trovarsi di fronte a una persona molto seria e dignitosa: «Tutti e due siamo palermitani, dice Falcone. Bastava un giro di frasi, un’occhiata, il riferimento a un luogo e a una vicenda, che ci capivamo. Giocavamo a scacchi». Lo avverte: «Scriverò tutto quello che mi dice, e farò il possibile per farla cadere in contraddizione». E Buscetta replica: «Intendo premettere che non sono uno spione, e quello che dico non è dettato dal fatto che spero di propiziarmi i favori della giustizia; le mie rivelazioni non nascono da un calcolo di interesse. «Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori, per i quali sono pronto a pagare interamente i miei debiti, senza pretendere sconti. Voglio raccontare quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano».
Falcone elenca le scoperte che il discorso di Buscetta consente. Cosa Nostra ha una sua ideologia, anche se censurabile. Sfrutta certi valori del popolo siciliano: l’amicizia, l’onore, il rispetto della famiglia, la lealtà. Calò butta fuori di casa Buscetta perché sta con una amante. Liggio lo condanna perché è andato con la sorella di un amico. Salamone è offeso perché non ha fatto da padrino al battesimo di suo figlio. L’onorata società strumentalizza virtù e meriti, è un inganno storico. Proclama che organizza i più deboli, invece fa il suo interesse. Ma dopo Buscetta non sarà più come prima. La sua confessione ha messo a posto le tessere del puzzle, e lo Stato acquista una maggiore credibilità . Quando affrontano i temi politici, Buscetta dice a Falcone: «Stabiliamo chi deve morire prima: io o lei?». Ora si sa come è andata. Dal suo capo Stefano Bontate anche Buscetta ha imparato a comandare col sorriso. È discreto e misurato: può accettare un mezzo pacchetto di sigarette, mai una stecca. Perché è un messaggio carcerario, come le arance.
Falcone fuma il sigaro, e Buscetta non lo sopporta: non si lamenta, ma fa sapere a un altro magistrato che quel fetore lo distrae. Mentre lo sta interrogando, c’è una radio accesa col volume troppo alto, e due poliziotti litigano nel cortile. Buscetta si alza e va a chiudere la finestra. Si intendono. Quando è dentro, sulla porta della cella attacca uno di quei cartelli che si usano negli alberghi: «Si prega di non disturbare». E’ lui che sceglie gli interlocutori, e li mette in guardia: «Se si crea un polverone, tutto va per aria, e crolla anche la poca fiducia della gente in una lotta vera alla criminalità organizzata: vedremo come vi comporterete», dice. La mafia organizza gli attentati al giudice Scaglione, che per Tommaso è una persona per bene, e al questore Mangano, per dimostrare che non sbaglia mai. Non solo uccide, ma toglie anche la reputazione. Buscetta depone senza nascondere la sua parte nel dramma, ammette gesti anche gravi; quando Cavataio si rende responsabile di tradimento, dice: «Giurammo di finirlo», non «giurarono». Quando parla, in tribunale, nessuno dalle gabbie lo interrompe, lo ascoltano in silenzio. Ha ancora prestigio, ma le regole non sono più quelle di una volta. Falcone ascolta, annota, e anche lui sorride. Sorride anche quando gli arrivano certi avvertimenti: sa che non potrà difendersi quando avrà di fronte i nemici di fuori, e quelli di dentro. Quando va a Roma, al ministero della Giustizia, lo accusano: «Ti sei messo coi tuoi nemici». Quattro anni prima l’onorevole Martelli lo aveva attaccato. Lui risponde: «Io sono coerente coi miei principi; sto con lo Stato». Alle ultime elezioni, non ha votato socialista, ma per il suo collega Ayala, repubblicano. È un laico. Perché proprio ora quei cinque morti, e quella dozzina di feriti? Perché le istituzioni sono fragili, c’è un vuoto al vertice, nessuno comanda. Perché bisogna distrarre l’opinione pubblica da quello che accade a Milano. Per far capire che non dimenticano. Per ricordare che loro sono i più forti.
La strage di Natale, quella del treno 904, fece passare in secondo piano le rivelazioni di Buscetta. Falcone contro Di Pietro. Forse il dottor Giovanni Falcone, giudice, ha reso l’ultimo servizio al suo Paese: a Montecitorio, con un sussulto di dignità , sceglieranno il presidente della Repubblica. Conterà , in particolare, un voto: quello dell’assassinato. Sognava un’Italia più pulita. L’ultima immagine che è rimasta nei suoi occhi è quella di un lembo di Sicilia: il mare, l’erba verde di un pascolo, gli olivi saraceni che tremano nel vento caldo, le buganvillee che stanno sfiorendo. Le lancette dell’orologio di Francesca Morvillo coniugata Falcone sono ferme sulle 18.08, è anche un’ora della nostra infelice storia. Debbono sentire che sei abbandonato a te stesso. Ti hanno segnato nel libro per sempre. L’ultima immagine rimasta nei suoi occhi è un lembo di Sicilia: il mare, gli olivi.
Firma: Enzo Biagi
Fonte: Corriere della Sera (24 maggio 1992)