“Salvate mio marito dalla condanna a morte” l’appello ai politici italiani della moglie del ricercatore Djalali a rischio esecuzione in Iran

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È in Italia in questi giorni per una serie di incontri la moglie di Ahmadreza Djalali il ricercatore iraniano accusato di spionaggio in Iran.

Venerdì pomeriggio presso Casetta Rossa, Vida Merhannia ha partecipato all’incontro organizzato da Amnesty International dal titolo “La mia battaglia contro la pena di morte”.

Dopo l’introduzione di Gianmarco Saurino attore e attivista per i diritti umani la parola è stata presa da Riccardo Noury portavoce di Amnesty International che ha elencato i paesi nei quali ancora oggi vige la pena di morte.

L’Iran è secondo solo alla Cina per il numero di esecuzioni capitali. “A volte vengono ‘giustiziati’ anche coloro che hanno commesso il fatto quando ancora minorenni violando completamente le leggi internazionali che lo proibiscono” ha detto Noury, che ha anche denunciato i tanti processi iniqui in Iran e le repressioni nei confronti delle minoranze etniche e religiose.

Riprendendo i dati di Iran Human Right sono oltre centro le persone ‘giustiziate’ dall’inizio del 2022 e di recente hanno ripreso anche le esecuzioni pubbliche, spesso nelle piazza delle città, che di fatto sono una violazione del diritto internazionale sui diritti umani.

Secondo il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, le esecuzioni pubbliche violano l’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici di cui l’Iran è firmatario, il quale afferma che “Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti o punizione”. Inoltre viola l’articolo 6 della Convenzione che stabilisce che “Ogni essere umano ha il diritto intrinseco alla vita”.

Eppure l’Iran sembra proprio non tenerne conto, anzi proseguono le repressioni, le condanne e le torture nei confronti dei dissidenti del regime. Aumenta il numero dei prigionieri politici detenuti presso il famigerato carcere di Evin noto ormai anche come ‘università’ di Evin” per l’alto numero di intellettuali ed accademici incarcerati.

Il caso del ricercatore Djalali è un caso politico e Vida nel suo intervento ha ripercorso la storia dell’arresto di suo marito fino a ciò che sta accadendo in questi giorni.

Ahmadreza é un medico che ha compiuto 50 anni lo scorso gennaio, si è formato presso un’università militare iraniana in medicina delle catastrofi. Una disciplina che studia, anche come reagiscono gli ospedali a disastri naturali e umani come attacchi terroristici di tipo CBRN (armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari).

Era proprio questo il tema di ricerca di Djalali fra il 2012 e il 2015, quando lavorava come ricercatore al Center for Research and Education in Emergency and Disaster Medicine, dell’Università del Piemonte Orientale.

Djalali nell’aprile del 2016 venne arrestato dai servizi segreti iraniani mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz, dopo il suo arresto ha trascorso sette mesi in isolamento senza che alcuna informazione fosse data alla sua famiglia.

Come dichiarato da Ahmdreza in una lettera dell’agosto del 2017 scritta dalla prigione di Evin, furono proprio le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di “collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Unione Europea”.

“Durante un viaggio in Iran nel 2014, – si legge nella lettera – due persone dell’esercito e dei servizi segreti mi chiesero di identificare e raccogliere dati e informazioni: di fare spionaggio nei paesi europei, riguardo alle loro infrastrutture critiche, capacità anti-terroristiche, piani operativi sensibili. La mia risposta è stata “no, io solo uno scienziato, non una spia”.

Probabilmente questo rifiuto ha destato sospetto nelle autoritá iraniane che lo hanno condannato nel Dicembre del 2017 alla pena capitale proprio con l’accusa di “spionaggio”.

Djalali che è di origini iraniane ma residente in Svezia (quindi con doppia cittadinanza) è stato inoltre multato a 200.000 euro  per “corruzione sulla terra” dopo un processo ‘farsa’, davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran.

Il verdetto della corte ha affermato che Ahmadreza Djalali ha lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, e come da Vida più volte ricordato nel suo intervento ad oggi il tribunale non ha mai fornito alcuna prova per giustificare tali accuse.

Lo stesso Djalali ha affermato che, mentre si trovava in isolamento, gli era stato negato l’accesso ad un avvocato e fu costretto a fare “confessioni” davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori.

Attraverso pressioni, torture e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte, anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua famiglia che vive in Iran, è stato costretto a “confessare” di essere una spia per conto di un “governo ostile”.

Vida ha raccontato di vivere un incubo che ormai dura da sei anni. “Ogni giorno potrebbe essere quello dell’esecuzione” ha detto tra le lacrime. “Da quando è stato arrestato – ha spiegato – ha perso circa 30 kili, non ha avuto accesso ad adeguate cure mediche e di recente ha avuto un’operazione all’addome”.

Proprio la scorsa settimana, suo marito si è recato nella farmacia del carcere ma quando ha chiesto la terza delle medicine prescritte dal medico, le guardie hanno iniziato a picchiarlo senza motivo.

Al momento la famiglia di Ahmadreza in Iran è l’unico canale aperto che può avere contatti con lui. Nemmeno sua moglie dalla Svezia ha la possibilità di parlare con lui al telefono.

Vida e Ahmadreza hanno due figli una ragazza di 19 anni e un figlio di 10 che attendono il rientro a casa del loro padre. Il mondo accademico e le organizzazioni per i diritti umani continuano a mobilitarsi e a inviare appelli alle autorità iraniane chiedendo l’annullamento della condanna a morte di Djajali. Ma l’Iran non ha mai risposto.

Sulla pagina di Amnesty International dello scorso 14 gennaio si legge che ‘l’ambasciatore italiano a Teheran non ha accettato di incontrare l’avvocato e la famiglia di Ahmadreza, nonostante la sua grave situazione’.

Eppure non dovremmo dimenticare quanto questo ricercatore abbia contribuito agli studi e alla conoscenza italiana attraverso la sua competenza negli anni in cui ha lavorato nell’università del Piemonte.

La storia di Djalali è forse una delle più ‘oscure’ che abbia mai raccontato e forse anche la più drammatica.

Ho seguito questo caso dall’inizio quando ancora vivevo a Tehran e avendo la possibilità di dialogare con Vida, durante questi anni ho stabilito un rapporto di amicizia e di stima reciproca. Con lei ho condiviso le attese, le paure, le lacrime, e il terrore di non sapere cosa fosse capitato a Ahmadreza quando venne bendato, prelevato e trasferito dal carcere in un luogo non identificato.

Per giorni e giorni abbiamo atteso notizie fino a quando ha fatto rientro in carcere. Erano stati giorni difficili in cui Vida era arrivata a pensare che lo avessero già ‘giustiziato’ senza nemmeno che la famiglia ne fosse avvertita. Un atteggiamento consueto in Iran.

Nel dramma di saperlo in carcere, la buona notizia era ed è tutt’oggi che Ahmadreza è vivo. Ma non sappiamo ancora per quanto.

La condanna a morte per Ahmadreza Djalali è ancora in essere, è stata solo ‘temporaneamente sospesa’ ovvero interrotta ma solo per un periodo limitato di tempo.

Non sappiamo quanto sia questo ‘tempo’ ma prima che accada l’irreparabile possiamo fare qualcosa, possiamo chiedere ad esempio ai nostri politici di intervenire immediatamente su questo caso. Possiamo parlarne e divulgare il più possibile la terribile storia di questa famiglia.

Ma dobbiamo farlo oggi, perchè domani potrebbe essere già troppo tardi.


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