Nella storia della RAI, e dell’informazione in generale, esiste un prima e un dopo. Il 18 aprile 2002 costituisce, infatti, uno spartiacque, una data simbolica dopo la quale nulla è stato più come prima. Quando Silvio Berlusconi, durante una conferenza stampa, disse a Sofia che l’uso che Biagi, Santoro e Luttazzi avevano fatto della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti era criminoso e che preciso compito della nuova dirigenza era far sì che ciò non avvenisse più, qualcosa si ruppe per sempre. Fu chiaro, difatti, che eravamo entrati in un’altra epoca, e da allora non ci siamo più ripresi. L’editto bulgaro ha rappresentato un punto di non ritorno, un abisso dopo il quale abbiamo cominciato ad assistere al tristissimo fenomeno dell’autocensura, della paura di scrivere e di parlare, dello scadimento dell’informazione, fino al baratro nel quale siamo sprofondati attualmente. In poche parole, la RAI che abbiamo conosciuto e amato per decenni, al netto di tutti i suoi limiti e di un apparato censorio non certo permissivo, smise di esistere in quell’amara primavera, mentre milioni di italiani manifestavano in piazza contro le leggi del governo Berlusconi, il tentativo di smantellare l’articolo 18 e le proposte di riforma del sistema radiotelevisivo di cui ancora non si percepiva del tutto la portata distorsiva.
Ricordo bene la risposta di Biagi quella sera, il suo editoriale al Fatto, quasi disperato, in un contesto in cui tutto era ormai scritto e il destino della trasmissione segnato. Ricordo la dignità dell’uomo, prim’ancora che del giornalista, al cospetto di un’aggressione che gli riportava alla mente le stagioni più buie della storia del nostro Paese. E mi domando quante cose sarebbero state diverse se quell’editto non fosse mai stato pronunciato, se Biagi fosse rimasto in RAI, e con lui tutti gli altri, se l’informazione avesse avuto ancora il ruolo e l’importanza che le spettavano e se il dominio berlusconiano non si fosse esteso a ogni settore della società, fino a contagiare un centrosinistra mai realmente convinto di dover combattere questa battaglia. Perché diciamocelo chiaramente: a favorire l’allontanamento dei “reprobi” furono senz’altro gli alfieri della nuova dirigenza RAI ma non è che l’opposizione si sia stracciata le vesti o abbia manifestato a dovere per contrastare questo scempio, come non ha manifestato a dovere sui fatti di Genova, preludio dell’editto bulgaro, dato che proprio a Biagi venne impedito di realizzare uno speciale su quella tragedia, con il preciso e interessato consiglio di riposarsi in vista dei successivi impegni. I tonfa del G8 e i manganelli mediatici di Sofia devono essere posti, dunque, in relazione, altrimenti si rischia di non capire cosa sia accaduto in quei mesi e di sbagliare analisi sul prima e sul dopo. Fra il luglio del 2001 e l’estate del 2002, i valori resistenziali e costituzionali vennero messi per sempre in discussione, e non sorprende che sia stato proprio il partigiano Biagi a pagare il prazzo più alto, in quanto simbolo non solo di una certa idea del giornalismo ma anche di una determinata visione del mondo e dell’umanità, punto di riferimento per tutte e tutti noi, maestro di intere generazioni di colleghi ed erede di un’esperienza di riscatto che si voleva far scomparire dalle menti e dai cuori.