… E vedrete che vi capiterà, i dettagli saranno diversi, ma capiterà anche voi. È questo che sono venuta a raccontarvi. Le prime battute del monologo L’anno del pensiero magico (2007) lacerano le orecchie, trasmettono un brivido, e la paura. Con la voce di Vanessa Redgrave è Joan Didion che ci parla. Lo dice a noi come se ci guardasse o ci puntasse il dito contro. Così non si può che ascoltarla fino alla fine. Fa male, ma non commuove, non tira in ballo sentimenti: la retorica del dolore. E neppure il libro da cui la scrittrice ha ricavato il testo teatrale. Lo stesso titolo, due anni prima.
La vita cambia in fretta./La vita cambia in un istante./ Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita./ Il problema dell’autocommiserazione.
Un incipit – quello del libro – diretto come uno schiaffo che trascina al centro dell’argomento: la morte del marito John Dunne. L’infarto di un cardiopatico grave è un fatto prevedibile eppure imprevisto nel contesto quotidiano di una cena casalinga. Anche per questa banalità, per questo essere accaduto così come le cose peggiori succedono senza preavviso né dichiarazione ufficiale, Joan Didion non te la levi più dalla testa. Perché toglie illusioni. Non conta l’idea che ti sei fatta su come reagirai, su cosa farai di fronte a un cambiamento immediato e radicale. Perché non è così che andrà. Il confine tra razionalità e pazzia diventa troppo sottile, così facile da superare.
Di questo scardinamento della mente raccontano sia il libro, sia il monologo. Spiegano l’effetto vortice che trascina in basso, indicano freddamente i luoghi da evitare per i troppi ricordi (per lei tra la California e New York). Dicono come sia stato meglio abitare quello stato confuso tra oggettività e magia. Di come sia stato necessario alla lucidità contare gli inutili minuti di rianimazione dei soccorritori, il tempo impiegato dall’ambulanza da casa all’ospedale, capire e non voler capire l’assistente sociale, la sua frase definitiva: John è morto. E pensare che sia un errore abrogabile: qui c’era il verdetto. Trova l’errore giusto e il verdetto potrà essere revocato. Gli errori sono facili da trovare. Sapere di un corpo senza vita e non essere pronti a rendere definitivo il fatto, sperando in una revisione dell’accaduto.
Svegliarsi il mattino dopo, è ancora lui non è tornato. La macchia di sangue secco, gli elettrodi dell’Ecg sono sempre lì sul pavimento dove è caduto. Lui parlava, poi ha smesso. È così che si diventa un osso duro, si diventa una che pretende l’autopsia per vedere cosa? Un cuore o involucro del niente? Un osso duro è una donna che preferisce star sola, che legge articoli, poesie, testi scientifici sul lutto. Che scrive di dolore. Era come sedersi a piangere, dirà in un’intervista. Ma lei non rinuncia, va incontro all’ostacolo e accende alla sera il camino, perché il fuoco è casa: è John. La magia sono le sue scarpe che tiene a portata di mano perché lui torna e ne avrà bisogno.
Gli egizi deponevano nelle tombe gli oggetti cari al defunto, gli indiani chiamavano ma-ya l’idea di un mondo esterno come proiezione mentale. Non esiste senza chi lo pensa. Joan Didion affida la mente a un sortilegio simile, consapevole allo stesso tempo che al capo opposto del filo tra lei e la fine di tutto, di John, c’è solo il silenzio. Intreccia il suo personale pensiero magico alla vivisezione di stati d’animo atroci. Momenti di lucidità, e di follia. Una prosa feroce che ti avvolge nel filo spinato: una trappola da cui non esci fino all’ultima pagina. Perché dice di cose che sai anche tu. Dice di sensi di colpa, dice che avrebbe dovuto capire i segnali, e dice di una vita insieme. Dice di quanto manchi il confronto, il conforto, la condivisione. Di come l’autocommiserazione sia il vero pericolo: ragionare di sé senza chiedersi cosa abbia provato l’altro. Quali paure avrà avuto, quali dubbi. Avrà sofferto? La vita cambia in fretta, ripete. È un’ossessione. Le scarpe aspettano il ritorno, la scrittura tiene in vita fatti insignificanti o speciali, viaggi, set cinematografici, aperitivi, parenti, amici. E Litigi, silenzi di trentasei ore: devi sempre avere sempre avere l’ultima parola? per una volta nella vita non puoi lasciar correre? Devi sempre avere ragione? Quante volte qualcuno l’ha detto a noi?
Sapeva che stava per morire, me lo disse ripetutamente. Cambiai discorso. … Dissi “cosa facciamo per cena? E questo che i vivi dicono sempre a chi sta per morire? “Cosa facciamo per cena?”
L’anno del pensiero magico di Joan Didion a che fare con i tanti “se”: Se sacrifico una vergine la pioggia tornerà. Se tengo le sue scarpe … A volte disincarnato a volte alienato il linguaggio si spezza tra frasi di una sola parola (un grido), periodi articolati (una confessione), e l’assioma d’apertura: la vita cambia in fretta … Difatti. Altro dolore l’aspetta.
Pochi mesi dopo il marito, muore a trentanove anni la figlia adottiva Quintana. Tutto finito, perduto. In un altro mondo. Ne L’anno del pensiero magico Quintana è ancora viva in una parentesi di stupore per le conseguenze di una polmonite qualunque, lo shock settico, il coma indotto in ospedale. Ma Joan è con lei, la figlia ce la farà anche solo per questa vicinanza. Giovane dopotutto. È sera, padre e madre stanno rientrando da una visita alla figlia. In auto non è di lei che si preoccupano, ma di dove cenare: ristorante o casa? Meglio rilassarsi, un paio di aperitivi, il camino acceso. Due chiacchiere a tavola. All’improvviso la morte. La vita cambia in un attimo. Quintana non deve sapere, non subito, non fino a quando non sarà in grado di capire. Altro non può fare una madre, non può che rimandare il funerale perché lei possa esserci, possa salutarlo con le stesse parole che lui le diceva: ti amerò anche un giorno di più. Almeno quello. La vita di Quintana nel libro non è un corollario, ma neppure un dramma. Non ancora. Il pensiero magico sorregge. John vive ancora perché lei lo pensa. Sta scherzando con la figlia. Sono nella stessa stanza d’ospedale. Le sue scarpe lo aspettano a casa, come Gerry, il marito di Quintana, aspetta la moglie.
Invece, impensabile, la morte si presenta di nuovo. È di casa. Cambia ancora le carte, alza la posta del suo gioco perverso sommando al primo dolore lo strazio del secondo. Dalla fusione di due eventi diversi con esito eguale nasce il monologo teatrale. Nasce la tragedia, la furia è lì, condensata in poche pagine scritte come un balbettio: freddo, visionario, amoroso, crudele.
Per scelta Joan Didion ne affida la recita all’amica attrice, Vanessa, madre come lei, come lei una figlia persa: lo stesso destino, la fatalità, la vita che cambia in un istante. La carne sanguina, la ferita si riapre.
Per questo, forse, il testo teatrale mi pare più brutale del libro, più ambiguo, più denso di significati. Ha un impatto diretto, a che fare con noi. E vedrete che vi capiterà… Perdere un marito, un figlio, restare senza nulla. Il pensiero magico salvifico – le scarpe di John – s’incrina a tratti, s’insinua la realtà. Joan Didion strepita la sua verità.
Oggi non mi aspetto più che tornino. … Voi credete che sia pazza perché altrimenti sarei pericolosa./ Radioattiva./ Se sono sana di mente quello che è successo a me potrebbe succedere anche a voi./ Voi non volete sentire quello che ho da dirvi./ Volete che vi legga una prognosi favorevole. Non posso./ Così è più sicuro che sono pazza.
A chiudere il ciclo dei suoi morti Joan Didion scrive in Blue Nights (2011) la storia di quella bambina bellissima: Quintana. Ne svela i segreti, le paure, le malattie. Scompaginato in tanti flashback di memorie, di foto, di dialoghi, il linguaggio è meno spietato, più emotivo, inclusivo. La lunga lista di assenze, di eventi dolorosi, è una constatazione che non esclude molte pagine di dolcezza sull’infanzia della figlia, sui gelsomini intrecciati nei suoi capelli di giovane sposa. Non c’è spazio per quelle parole deliranti sulla pazzia, la sua, e quella di chi non vuole ascoltare, di chi cerca il lieto fine. E nonostante si tenda a soffermarsi su delicati passaggi, su momenti di normale felicità, neppure qui manca la prospettiva di un cambiamento. Si fa strada tra le pagine la malattia ancora senza nome della scrittrice. L’ultimo sberleffo alla sua vita sono quelle diagnosi vaghe, inconcludenti. Oggi sappiamo che si trattava di sclerosi multipla, cui, in seguito, si aggiunse il morbo di Parkinson. Il male definitivo dunque, e la morte il 21 dicembre 2021.
Così se n’è andata un’icona della letteratura americana. In una foto con Obama ci sembra solo una donna anziana, minuta, fragile con la medaglia che il presidente le ha messo al collo, curvo sotto un peso che forse non regge. Eppure lei lascia la cerimonia senza un sorriso, senza un grazie. È ancora un osso duro.
Restano i reportage in cui frusta l’America per un dovere morale, restano i libri, cui affida il potere della memoria, qualcosa di impalpabile, di invisibile che il tempo scalfisce e leviga, ma può operare la magia del ritorno. Il senso è che siamo come ci percepiamo, quello che ricordiamo di noi stessi, e di chi ci ha lasciato. Una rinascita. Un pensiero apotropaico. Joan Didion ha uno sguardo aquilino che indaga, vuole prove, poi rinuncia, divaga. Si affida al potere salvifico della scrittura. Tutto si rimescola: passato e presente, la presenza e l’assenza, le parole d’amore e quelle di provocazione. Capiterà anche a voi, non è una minaccia. A lei è andata così. Vuol farcelo sapere.
Joan Didion, L’anno del pensiero magico, il Saggiatore, Milano 2021 ( prima ed. 2006)
Joan Didion, L’anno del pensiero magico. Monologo, il Saggiatore, Milano 2008
Joan Didion, Blue Nigthts, il Saggiatore, Milano 2021( prima ed. 2012)
Quando la vita cambia, due libri e un monologo di Joan Didion