BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Miracoli visivi pasoliniani

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“Accattone”, di Pierpaolo Pasolini, Ita, 1961. Con Franco Citti, Franca Pasut.

Vittorio Cataldi, detto Accattone, è un figlio del Neorealismo. Ricordate la “chiama” iniziale, all’Ufficio del lavoro, di “Ladri di biciclette”? Il secondo nome chiamato dall’impiegato della “speranza”, dopo quello di Ricci, protagonista del capolavoro di De Sica, è appunto Cataldi. L’aggancio è diretto. Pasolini considerava il Neorealismo uno degli emblemi della rinascita del nostro Paese. Simbolo di riscatto di un intero popolo, seguito “visivo” della morale resistenziale. Non è, dunque, un caso che il cinema del poeta friulano nasca fuori da Cinecittà, nelle estreme periferie di Roma, con protagonisti presi dalla strada per raccontare se stessi. Ma siamo nel 1961 e rispetto al 1948 è cambiato tutto. Come amava dire lo stesso Pasolini, nel giro di pochi anni il boom economico, da lui definito Neocapitalismo, aveva travolto ogni specificità dell’umano, tutto era diventato ad “una dimensione”, per citare Marcuse, quella del consumismo. Il popolo si era trasformato in “massa informe”, secondo la definizione data dallo stesso regista nella sua poesia “Il glicine”, inserita nella raccolta “La religione del mio tempo”, 1961. Dunque, Accattone è per Pasolini il sottoproletario, il sopravvissuto, l’uomo arcaico, il contadino senza più terra del suo giovanile e amato Friuli, che vive di espedienti perché intorno gli è stata fatta terra bruciata. Nel suo film la borghesia rimane fuori campo, inutile rappresentarla. Vi compare indirettamente in quello scempio urbanistico e comunitario che ha imposto e che ha preso il sopravvento in nome di un individualismo mercificato che tutto travolge. Accattone vive ai margini della Capitale, in quelle baracche poste simbolicamente sul limitare della campagna, oltre la quale si intravedono i palazzoni popolari informi e senz’anima, figli della speculazione edilizia della ricostruzione postbellica ma, soprattutto, emblema di un mondo destinato alla distinzione di classe con l’accordo di tutti, vittime e carnefici, uniti verso un unico scopo, l’accumulazione della merce, privazione del valore dell’unicità dell’uomo. Dunque, Vittorio Cataldi non esiste per nessuno, se non per se stesso. Egli si muove incessante­mente alla ricerca di denaro per sfamarsi, condizione primigenia che approfitta della “facile” contemporaneità. Il suo vivere fuori dal perimetro della Roma “civile”, consegnata da Fellini al­la falsa “Dolce vita” di chi può o vi spera, condivide con i pro­pri “simili” un linguag­gio ancora antico, carico di dolente umanità, ed una spaventosa ferinità che agli occhi dell’intel­lettuale friulano si offro­no come ultimo baluar­do alla vuota esistenza robotica modellata per tutti dalla borghesia trionfante. E sono proprio i prati, che dividono la vi­talistica periferia sotto­proletaria dalla città del boom, ad essere visti da Pasolini come l’ultimo lembo di natura in cui gli ultimi “uomini”, i sottoproletari appunto, consumano i loro dram­mi e le loro passioni. Dunque, Accattone è un rimasuglio della Storia, destinato a scomparire, come le tante situazio­ni funeree del film sembrano indicare. La sua passione, fatta di tante stazioni, ne disegna un percorso cristologico in cui la morte acquisisce, fotogramma dopo fotogramma, il senso di liberazione ed insieme di rinascita. Ed Accattone, infatti, muore, nel tentativo di sfuggire alle forze di un ordine apparente, in sella ad una moto, la cui velocità è davvero ben lontana dai tempi lenti e accomodanti di chi fino ad allora non aveva conosciuto concorrenza e competizione, vocaboli neocapitalistici che raccontano l’arrivo di un altro essere dall’ancora incerta definizione.

“Teorema”, di Pierpaolo Pasolini, Ita, 1968.

Con Silvana Mangano, Terence Stamp, Massimo Girotti, Anne Wiazemski, Laura Betti.

Primo film di Pasolini sulla borghesia, il cui soggetto è alla base dell’omonimo romanzo pubblicato nello stesso anno, 1968. L’opera si apre con una panoramica su una industria, immersa in una grigia e nebbiosa contemporaneità, cui fa da contrasto l’arcaica immagine seguente dell’Etna. Dunque, Pasolini espone fin da subito il tema del suo film, che è poi il suo di sempre: il rapporto tra modernità e passato, attualità e tradizione. Una ricca famiglia altoborghese milanese ospita un giovane, di cui nulla lo spettatore saprà mai, se non la sua capacità di rendere felice tutto l’infelice nucleo familiare composto da padre, madre, figlia, figlio e domestica. L’eros dall’ospite si muove dentro i silenzi e il disagio esistenziale di ognuno, rompendo quel muro di profonda incomunicabilità che Pasolini sembra aver preso a prestito da Antonioni. La Messa da Requiem di Mozart, con cui l’autore accompagna i suoi protagonisti verso una inedita felicità, sottolinea il motivo della sacralità del gesto sessuale, capace di rendere appieno la percezione dell’umano in ognuno dei personaggi. Non a caso il film spaccò nettamente in due il giudizio della Chiesa cattolica su di esso, forse come mai era avvenuto prima. Ogni sequenza che vede l’ospite sedurre tutti i componenti la famiglia sembra avvolta da un’aura di misticismo, che esalta fortemente l’essenza stessa dei corpi coinvolti in una rinascita emotiva necessaria. La partenza dell’ospite diventerà la cartina di tornasole di quanto accaduto prima. La figlia cadrà in uno stato catatonico, segno di una forte mancanza empatica, cui il particolare del pugno chiuso aggiunge una rabbia eloquente. La madre cercherà di recuperare il rapporto “eversivo” con l’ospite in altri giovani avvicinati per strada, in una esplicita liberazione sessuale che esprime una chiara volontà alla felicità e al vitalismo, naturale contrapposizione freudiana al Thanathos. La domestica arriverà, dreyeranamente, a librarsi in aria, in una sorta di continuum mistico reso possibile da un appagamento emotivo che le farà vivere una religiosità non martirizzata dal bisogno sessuale. Il figlio darà seguito al suo processo di esplicitazione sentimentale riversando nell’arte quella forma di estrema libertà del pensiero che l’intimo rapporto con l’ospite gli aveva dischiuso. Infine, il padre cederà la fabbrica ai suoi operai e, giunto alla stazione di Milano, si svestirà fino a rimanere nudo, da qui giungendo, simbolicamente, ad abitare quella terra arcaica già vista all’inizio del film, contraltare della fredda realtà borghese, prossimo possibile inizio di un nuovo mondo, e nella quale egli emetterà un grido primordiale che sembra non voler mai finire. Dunque, un’opera composita e complessa questa di Pasolini, nella quale si respira l’aria del’68, non nelle sue forme più scontate ma nella volontà dell’autore di aderire ad un processo storico naturale e collettivo. In questo senso, Pasolini sembra voler rispondere a quelle critiche, anche semplicistiche, ricevute quando si schierò dalla parte dei poliziotti in occasione degli scontri con gli studenti universitari a Valle Giulia. Il grande artista friulano parte, così, da un’analisi della borghesia per arrivare a negarla nelle sue stesse dinamiche, come solo un intellettuale del suo valore poteva concepire e fare. Pasolini come ultimo erede di Antonio Gramsci…

“Salò o le 120 giornate di Sodoma”, di Pierpaolo Pasolini, Ita-Fra, 1975.

Con Paolo Bonacelli, Hèlène Surgère, Caterina Boratto.

Ultimo film del regista friulano, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” segna l’apoteosi del suo cinema, e forse anche di tutta la sua opera. Mai come in questo film Pasolini ha saputo mettere in chiaro il suo pensiero sul mondo contemporaneo, sul potere della borghesia dominante, sul valore dell’uomo ridotto a merce. Ispirato ai tragici avvenimenti legati alla Repubblica di Salò, alle torture praticate nelle tante Villa Triste ad opera degli aguzzini repubblichini, l’ultima fatica artistica di uno dei più grandi intellettuali del XX secolo fa seguito alla sua Trilogia della vita ed alla relativa abiura. Primo capitolo della “Trilogia della morte”, mai completata a causa del suo assassinio, il film fa riferimento al noto romanzo del Marchese De Sade, ed è impostato secondo la logica dei gironi dell’Inferno dantesco. I quattro tragici protagonisti, Il Presidente (Potere economico), Il Duca (Potere di casta), Il Monsignore (Potere ecclesiastico) e Sua Eccellenza (Potere giudiziario), rappresentano il Potere tout court. Pasolini, però, non si accontenta di mettere in scena la violenza disumana cui ogni Potere assoluto può giungere, quello che più gli preme è muoversi per simboli, e attraverso questi metaforizzare l’esperienza storica per farla diventare testimonianza di un presente non diverso da quello dei fatti storici narrati. La contrapposizione tra i giovani partigiani, torturati e brutalizzati, e gli adulti controllori del Potere coinvolge altri giovani, i fascisti repubblichini, assecondati nella loro ferocia da un padrone che così li ha addestrati. La violenza viene, dunque, inquadrata da Pasolini come risultato ultimo di un contesto educativo e culturale che per più di venti anni aveva inculcato nelle menti di tanti giovani l’idea della sopraffazione come normale pratica di dominio sul più debole, sul vinto. Gli atti di sodomia, coprofagia e sadomasochismo rappresentano l’unico modo con cui il Potere riesce ad esplicitarsi e ad imporsi, manifestandosi così come impotente a sopprimere ogni pensiero. Il corpo umano è stato da sempre al centro dell’interesse visivo e rappresentativo di Pasolini, declinato nelle sue diverse forme e nei suoi diversi contesti. Dai corpi vitalistici di “Accattone” e di tutta la “Trilogia del sottoproletariato”, a quelli antropologicamente rilevanti dell’”Edipo Re” e di “Medea”, da quelli ingabbiati e da liberare dei borghesi di “Teorema” e “Porcile”, a quelli già liberati del sottoproletariato storico della “Trilogia della vita”, fino a “Salò”, in cui i corpi diventano oggetti da usare per diletto, da “spettacolarizzare”, risultando così ancora più offesi rispetto alla torture e alla violenze subite. Annullati come esseri umani, i corpi brutalizzati “per gioco” del film di Pasolini anticipano l’uso manipolatorio che la società dei consumi fa oggi dei corpi ridotti a puro strumento di piacere. L’uso del corpo rappresenta per Pasolini il grado ultimo di mercificazione e di annullamento del’Io perpetrato dalla società dello spettacolo, nell’accezione tragica teorizzata da Guy Debord. Quello dell’intellettuale friulano è il pensiero di un uomo libero da ogni condizionamento, capace di arrivare all’essenza ultima delle cose. Coraggioso fino alla fine dei suoi giorni, a quel 2 novembre del 1975, che lo vide soccombere dinnanzi alla violenza bestiale ed impotente di chi non sapeva come impedirgli di pensare. “Salò o le 120 giornate di Sodoma” fu presentato al Festival del Cinema di Parigi soltanto venti giorni dopo. <<Il pensiero non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare>>, cantava Lucio Dalla…


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