BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Letizia Battaglia e il tempo degli addii

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Non è un gran momento: né per l’Italia né per il mondo. Tralasciamo per un momento la barbarie bellica nella quale siamo immersi, nostro malgrado, e concentriamoci sul mondo della cultura e dell’arte. Come sapete, ci ha detto addio, all’età di ottantasette anni, Letizia Battaglia, la donna che fotografò gli orrori della mafia. Rimarrà per sempre impressa nei nostri occhi l’immagine straziante dell’attuale Capo dello Stato mentre estrae dalla vettura il corpo del fratello Piersanti, vittima di un agguato di Cosa Nostra il 6 gennaio 1980. Allo stesso modo, rimarranno per sempre impresse nei nostri occhi molte altre immagini, il più delle volte terribili ma, proprio per questo, in grado di smuovere le coscienze e indurci a riflettere. Nel contesto di una Sicilia afflitta dalla violenza e da una scia di sangue che, nei primi anni Ottanta, la rese una terra quasi invivibile, Letizia Battaglia si è distinta per professionalità, umanità e passione civile.
Ha ritratto l’abisso senza mai compiacersi del dolore, non si è mai avventata sui corpi riversi sull’asfalto in una pozza di sangue, non ha mai dato vita al tripudio pornografico della ferocia che troppe volte caratterizza chi si occupa di queste vicende. In lei c’era la delicatezza delle siciliane di una volta, un po’ Pirandello e un po’ Leonardo Sciascia, con l’obiettivo che immortalava lo scorrere del tempo e la presenza sul posto che faceva il resto. Perché Letizia, che è stata un po’ la nostra Gerda Taro, inviata su un altro fronte, non meno insidioso e devastante, non ha mai mandato qualcuno al posto suo. Lei le tragedie voleva guardarle negli occhi, osservarle da vicino, comprenderle nei minimi dettagli, respirarne il dolore e restituirne l’essenza. Era, la sua, una fotografia intensa e profonda, ricca di scatti in grado di diventare immortali; una fotografia nella quale non prevaleva mai l’aspetto voyeuristico e nella quale le emozioni si fondevano con il racconto meticoloso dell’accaduto. Senza il suo impegno, tante follie dell’ultimo mezzo secolo non avrebbero avuto un volto e tante verità difficilmente sarebbero entrate a far parte dell’immaginario collettivo.
Per questo ne piangiamo la scomparsa con commozione, grati per la sua abnegazione, commossi di fronte alla levità con la quale ha vissuto fino all’ultimo giorno e increduli al cospetto della sua stravagante irriverenza, la virtù che le consentiva di essere inimitabile fin da colore dei capelli, rosa, scioccanti e incredibilmente visibili, anche da lontano, affinché tutte e tutti comprendessero di avere a che fare con una donna che non aveva paura né di essere né di apparire.
Ricordiamo Letizia nello stesso anno in cui rendiamo omaggio ai settant’anni di don Camillo, l’affresco dell’Italia del dopoguerra, nato dalla penna inimitabile del Guareschi e reso cinematograficamente eterno da Fernandel e Gino Cervi, oltre che dalla bravura di registi come Julien Duvivier e Carmine Gallone. Anche quella prosa e quel ritratto epocale costituiscono, a pensarci bene, una fotografia di come eravamo, purtroppo inattuale in una stagione caratterizzata da una crudeltà che speravamo di esserci lasciati per sempre alle spalle dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale. Eppure, è alla bellezza che dobbiamo aggrapparci per sopravvivere, in quanto solo la meraviglia dell’umanità potrà salvarci dalla cattiveria che ormai dilaga ovunque, dalle parole ai gesti, fino a trasferirsi sul palcoscenico di un Paese occupato da un aggressore spietato, mentre l’Occidente si sta rivelando incapace di essere un attore di pace.

Viviamo in uno stato d’angoscia e d’incertezza, acuita dalla scomparsa dell’economista keynesiano Jean-Paul Fitoussi, uno dei pochi a essersi opposti fin da subito alla folle linea dell’austerità e ad aver messo in discussione alcuni dei dogmi del PIL e della crescita senza fine, rendendosi conto, prima e meglio di altri, di quanto quest’illusione sia foriera di disastri. Anche questa, in fondo, è una fotografia del nostro tempo.
Soli, increduli e avviliti, cerchiamo di farci forza a vicenda. Sperando che la denuncia costante di chi non si arrende al male possa prevalere sul desiderio di morte e sofferenza che sembra essersi impadronito di tanti, troppi commentatori, evidentemente inconsapevoli di star giocando con un fiammifero acceso davanti a una vasca colma di benzina.

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