La prima versione di Pinocchio, pubblicata nel 1881 in otto puntate sul Giornale per i bambini, corre asciutta e veloce verso immagini e situazioni sempre più fantasmatiche e lugubri, fino all’assassinio del burattino. Non a caso Calvino lo considerava l’unico racconto gotico italiano dell’Ottocento, il solo ad avere una stretta connessione con le atmosfere del romanticismo europeo.
La casa editrice Il Palindromo ha avuto l’idea geniale di riportare nelle librerie proprio questa storia dimenticata, che Collodi ampliò successivamente, nel 1882, per accontentare le richieste del direttore Guido Biagi. Un fumo d’inferno, una penombra ghiacciata avvolgono le cento pagine della narrazione. I personaggi sono maschere medievali a una dimensione, gli adulti umani che circondano il burattino manifestano una cattiveria innata e gratuita – come il vecchio che getta un secchio d’acqua su Pinocchio, o l’oste furbastro e maligno della Luna piena –, persino le figure che sembrano mosse dalla generosità si ha il sospetto che compiano gesti di altruismo estremo più nella speranza di benefici futuri che per reale affetto.
Così la commozione ostentata di Mangiafoco prende un riverbero sinistro, e la sua figura s’ingigantisce come un’ombra deforme mentre avanza con gli occhi di brace e la lunga barba nera che gli ostacola il passo. Come la maggior parte dei personaggi maschili di Pinocchio, gioca con il potere e con l’arbitrio feroce, sacrificando le sue marionette per alimentare il fuoco sul quale sta cuocendo l’arrosto di montone. Ne incontreremo tanti, nei capitoli aggiunti al libro, di questi aguzzini vanesi – carabinieri, giudici, imbonitori burrosi –, ma nessuno forgiato con un metallo arcaico, abbrunito, come Mangiafoco.
Le ipnotiche illustrazioni di Simone Stuto plasmano la tenebra del testo in rappresentazione sconsacrata, in immagine turpe e violenta, mentre la morfologia umana si decompone in una bestialità invereconda e urlante che ricorda i ritratti di Bacon, o L’isola del dottor Moreau di Wells.
Nella prima stesura di Collodi, Pinocchio è un elfo, una forma creaturale priva della cognizione del futuro, una specie di animaletto bizzarro in preda alle suggestioni momentanee. Ed appare profondamente innocente, vittima delle figurazioni della dimensione adulta, delle rappresentazioni menzognere dell’oggettività: la pentola dipinta, gli abiti di carta, mollica di pane e corteccia d’albero, ecc.
Il burattino si muove entro un’oscurità di capitolo in capitolo più fonda, procedendo una stazione dopo l’altra verso la morte e verso una parallela rarefazione del reale che lo conduce prima in un villaggio deserto, spettrale, nelle cui strade si aggira fra tuoni, lampi e un vento strapazzone, poi – dopo la cena con il Gatto e la Volpe all’Osteria della Luna Piena – dentro il silenzio di una notturnità boscosa, interrotto solo dal volo basso di qualche uccello. Invano l’anima soave del Grillo Parlante, una lucina fioca nel buio, cercherà di fermarlo.
Dopo una fuga di ore, giunge fino a una casina bianca e alla bimba/fantasima dai capelli turchini e dal viso scolpito nella cera che gli addita il destino inevitabile, rivelandogli che in quella dimora solitaria sono tutti morti e lei stessa aspetta la bara che venga a portarla via.
Sfinito, non potrà che cadere nelle mani rapaci degli Assassini incappucciati e, dopo un’agonia di cui l’autore ci mostra tutta la disperazione, si spegnerà appeso per il collo alla Grande Quercia, invocando un’ultima volta il padre umano Geppetto.
Pinocchio. La storia di un burattino
di Carlo Collodi
Collana: E noi sull’illusione [doc]
copertina e illustrazioni di Simone Stuto
pp. 152
15 x 19 cm, bross.
ISBN: 978-88-98447-55-8
prezzo: 15 €
http://www.ilpalindromo.it/edizioni/
La notturnità del primo Pinocchio. Il Palindromo pubblica la versione di Collodi del 1881