Un altro anno è trascorso senza di te, Vittorio caro. Ne sono trascorsi undici da quella notte tra il 14 e il 15 aprile in cui fosti rapito e ucciso a Gaza.
Non eri solo un collega, un attivista stimato, eri un amico con il quale ho condiviso la passione del giornalismo al servizio dei diritti umani.
La tua storia, partito da Besana Brianza per portare solidarietà al popolo palestinese, si è sviluppata in parallelo con l’impegno di illuminare quanto avveniva nella striscia di Gaza.
Lì ti eri trasferito per agire contro quella che definivi la ‘pulizia etnica’ dello Stato di Israele nei confronti della popolazione della Palestina. Un’aggressione inaccettabile che oggi viviamo, subiamo, a due passi dall’Europa.
Chi ti ha conosciuto ha sempre apprezzato l’umanità e la gentilezza che caratterizzavano il tuo essere quanto la tua coerenza politica e morale.
E il tuo coraggio. Ricordo bene quando, nel 2008, sei rimasto per settimane sotto le bombe a Gaza, testimone quasi unico dell’operazione “Piombo Fuso”, campagna militare lanciata dall’esercito israeliano sulla Striscia iniziata il 27 dicembre e durata ben 21 giorni.
Fu un massacro, 1417 morti di cui 313 bambini (secondo il Rapporto Goldstone), circa 5000 i feriti.
Dai tuoi racconti riuscivo a percepire l’odore acre di zolfo, a vedere i lampi dei missili squarciare il cielo e a sentire il boato delle esplosioni quando colpivano gli obiettivi.
“Ormai le mie orecchie sono sorde e i miei occhi aridi di lacrime dinanzi ai cadaveri. Tanti, troppi bambini” raccontavi attraverso Yuotube e altri mezzi social testimoniando gli attacchi che si abbattevano su civili, luoghi sacri, scuole e ospedali.
“Un 11 settembre ad ogni ora, ogni minuto, da queste parti, e il domani è sempre un nuovo giorno di lutto, sempre uguale” scrivevi su ‘Il Manifesto’ lanciando un appello affinché l’Italia insieme agli altri paesi europei si facesse promotrice di un’azione di pace, provasse a fermare gli orrori di Gaza perché “rimanere in silenzio significa supportare il genocidio in corso. Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo “civile”, in ogni città, in ogni piazza, sovrastate le nostre urla di dolore e terrore. C’è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto”.
Vik caro, con le tue corrispondenze sei riuscito a tenere viva quell’utopia che era diventata il suo secondo nome.
Ci raccontavi tra una minaccia di morte e una campagna di sostegno alla causa palestinese l’assedio di un popolo che null’altro chiedeva, chiede, che vivere nella propria terra, con dignità. Il diritto di ‘esistere’.
Oggi più che mai andrebbe letto il tuo libro, ‘Restiamo umani”, che descrive l’occupazione israeliana che quotidianamente ancora oggi, soffoca speranze e uccide i diritti a Gaza e in tutta la Cisgiordania.
Per ‘restare umani’, non perdere il contatto con la propria umanità e con il senso di giustizia che la battaglia per i diritti umani e per la libertà del popolo palestinese porta con sé, per restare in contatto con se stessi, e non lasciarsi tramutare in abulici, apatici e indifferenti testimoni di fatti e portare avanti quella coerente battaglia di testimonianza e informazione che chi ti ha ucciso ha voluto colpire. Senza riuscirci. Perché tu, Vik caro, vivi nei nostri ricordi e nelle tracce luminose che hai lasciato.