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Informazione e guerra. Basta ai fuffologi, torni la competenza e più ruolo agli inviati

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Ho due notizie. La prima è che il Covid, malgrado i decreti del Governo, esiste ancora. La seconda è che i talk televisivi sono inguardabili. Un po’ lo sospettavo, ma da quando sono costretto all’isolamento per tampone positivo, ho avuto la conferma di entrambe le notizie.

Bisogna evitare le generalizzazioni, ma scanalando sulle reti italiane è stupefacente l’omologazione del prodotto talk.

Innanzitutto perché gli invitati sono pressoché sempre gli stessi (al maschile perché c’è una prevalenza di questo genere), alcuni con una riconosciuta competenza, altri fuffologi. L’hanno già detto molti: questi ultimi si sono (d)evoluti da virologi, e chissà come si reinventeranno finita la guerra. Probabilmente siamo tutti d’accordo su questo punto, non so se c’è uniformità di vedute su perché è successo e su come evitare che accada.

È successo principalmente da quando la televisione commerciale ha imposto il format dell’infotainment. Che di per sé non è il male, sia chiaro, ma dipende come lo fai. La formula che ha schiacciato tutte le altre possibili è stata quella del ring, con due posizioni diverse e protagonisti testoteronici. Credo che tutti ci siamo più o meno cascati, con gli editoriali contrapposti e la spasmodica ricerca della voce fuori dal coro a qualunque costo. Gli editori hanno scoperto che era un’idea risparmiosa, perché permetteva di sostituire intere redazioni e i costosi inviati sostituendoli con un circo di commentatori.

L’idea di par condicio ha poi dato un suggello politico a questa formula pseudogiornalistica: nata per bilanciare l’anomalia di Berlusconi proprietario di Mediaset in politica, la par condicio è stata strumentalizzata e usata come giustificazione di ogni sciocchezza pronunciata in nome del pluralismo.

Detto questo, come se ne esce? Premesso che quanto scrivo non impegna il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti di cui sono da pochissimo membro, penso che fatta salva l’autonomia dei giornalisti titolari dei talk, qualche regola si può imporre (sì, imporre). La proposta uscita pochi giorni fa dalla Presidenza della Commissione Parlamentare di Vigilanza sul Servizio Pubblico fornisce qualche spunto: scegliere commentatori e opininiosti solamente se di comprovata competenza e autorevolezza; rotazione delle presenze; privilegiare la gratuità; escludere la teatralità nell’esposizione delle diverse posizioni; contrastare le fake-news. Il perimetro è ben segnato, spetta alla nostra categoria giocarsela bene.

Probabilmente c’è ancora qualcos’altro da fare. Un’idea la prendo in prestito da “Charlie”, una utile newsletter sul giornalismo de Il Post. Nell’ultimo numero spiega che non uno qualsiasi ma il direttore del New York Times ha chiesto ai suoi giornalisti di stare meno su Twitter. E ha spiegato perché: ruba tempo, influenza i giornalisti che si convincono che quello sia il pubblico di riferimento, è un ricettacolo di molestie e insulti, un tweet sbagliato è un danno per il giornalista che l’ha scritto e anche per il New York Times. Fine del riassunto. Si può dire ai giornalisti di non usare i social? Nel 2022 sarebbe anacronistico. Si può dire che quello non è il mondo reale (alla faccia di ciò che pensano Musk e Zuckerberg)? Direi proprio di sì.

C’è infine un terzo elemento che ho notato in questa clausura da Covid: l’uso che viene fatto degli/lle inviati/e di guerra. In molte trasmissioni viene chiesto loro di confermare tesi che sono già state premasticate in studio. Pessima idea, perché dà a inviati/e il ruolo di vidimatori di tesi da scrivania, se non – peggio ancora – prova a coinvolgerli nella rissa. Lo straziante racconto della guerra, soprattutto di questa guerra dove è evidente il ricorso a bugie propagandistiche da entrambe le parti, è un lavoro sufficientemente complesso, fatico ma utile: non aggiungiamo loro anche il carico di parteggiare per qualche opinionista a gettone.


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