L’ “…elemento razziale è stato utilizzato nella nostra storia e in quella dei nostri stati, per colpire, uccidere, torturare ed espropriare in nome del progresso.” Questo è uno dei passaggi della lunga intervista che abbiamo realizzato con Teresa Fernández Paredes, membro della OMCT ( Organizzazione mondiale contro la tortura) e coordinatrice del rapporto SO IT IS TORTURE!”- Analysis of the acts of violence that amount to torture and other ill-treatment of indigenous peoples in Latin America. Il primo rapporto che prenda in esame il fenomeno della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti inflitti alle popolazioni indigene in america Latina e che vuole essere un apri-pista rispetto ad una nuova prospettiva che tenga conto delle specificità culturali e sociali delle comunità autoctone.
Quanto tempo avete impiegato per redigere il rapporto e quante realtà hanno preso parte al progetto?
Questo rapporto è stato prodotto con il contributo di un team di 11 ricercatori provenienti da sette paesi della regione (Argentina/Cile, Bolivia, Colombia, Guatemala, Nicaragua e Messico), che compongono il Gruppo di lavoro sui popoli indigeni e la tortura in America Latina coordinato dall’Organizzazione Mondiale contro la Tortura e dal Centro per i Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas in Messico.
Abbiamo avviato il gruppo a maggio 2020 e per un anno e mezzo, fino a ottobre 2021, abbiamo lavorato insieme, anche se purtroppo senza poterci vedere di persona… Sono stati infatti realizzati 5 seminari di formazione e 20 incontri di lavoro virtuali, oltre a regolari scambi bilaterali e di gruppo con ciascun membro del team.
Durante questo anno e mezzo di dialogo, abbiamo avuto scambi con diversi interlocutori che hanno portato spunti di riflessione e questioni fondamentali sui concetti di tortura fisica e psicologica e di razzismo. Abbiamo già menzionato la relatrice delle Nazioni Unite e Claudia Samayoa, ma vogliamo anche ringraziare Ángela Ospina, Carlos Martín Beristaín, Irma Alicia Velázquez Nimatuj e Natalia Pérez Cordero, tra coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo lavoro.
2) Quali sono gli episodi più gravi in cui vi siete imbattuti?
Il rapporto presenta una lunga sezione con testimonianze dirette. Le interviste sono state condotte dalle 8 donne esperte dei singoli gruppi, che hanno lavorato con diverse comunità nella loro regione. Ma tutti i casi sono molto gravi e meritano di essere evidenziati in ciascuno dei contesti individuati: 1) tortura nel contesto dell’espropriazione della terra; 2) tortura nel contesto della protesta sociale e della criminalizzazione, stigmatizzazione e minacce contro i leader indigeni; 3) tortura nel contesto della detenzione o della reclusione; 4) tortura e violenza sessuale contro la popolazione indigena.
Per fare degli esempi specifici si possono comunque segnalare: i massacri in Nicaragua sulla costa settentrionale dei Caraibi, i continui sfratti in Guatemala, la criminalizzazione e gli omicidi dei leader del Cric in Colombia , l’arresto di leader mapuche in Argentina e Cile, l’uso eccessivo della forza contro gli indigeni in Bolivia, le espulsioni forzate e la violenza sessuale in Messico…
Uno dei casi che si potrebbe evidenziare, ad esempio, è quello delle donne indigene, che subiscono una doppia discriminazione, in quanto donne e in quanto indigene. Il rapporto include alcuni casi come quello della signora Juana Kalfunao Paillalef che ha sostenuto una lunga battaglia per la difesa del territorio e di denuncia contro lo Stato del Cile e la repressione ai danni del popolo mapuche. Quì una parte della sua esperienza:
“[…] Mi hanno preso a calci davanti a mio figlio e mio marito… mi hanno tolto i vestiti, mi hanno stretto al collo con le trecce, mi hanno preso a calci… quella volta ho perso il bambino […] mi hanno sparato, mi hanno trascinato per le trecce, mi hanno calpestato la faccia, mi hanno infilato un bastone nella vagina, mi hanno urinato addosso…”
3) Quali sono le ragioni dietro gli atti di violenza, trattamenti unumani e sparizioni forzate a danno delle popolazioni indigene?
Bisogna partire dall’assunto che è il razzismo la prima forma di oppressione ed è un fenomeno molto complesso poiché permea l’intero apparato sociale e istituzionale. Lo Stato moderno ha una struttura razziale, come ci ha spiegato in una delle sessioni di gruppo la dottoressa Ima Alicia, un’antropologa indigena guatemalteca. Vale a dire, l’attuale stato moderno è stato progettato per lo più da uomini bianchi, con una visione molto centrata sui propri interessi economici e, quindi, tutto ciò che era al di fuori di quella visione non aveva posto. Questo elemento razziale è stato utilizzato nella nostra storia e in quella dei nostri stati, per massacrare, uccidere, torturare ed espropriare in nome del progresso. Ecco perché il razzismo non va messo da parte quando si tratta di comprendere la tortura contro i popoli indigeni e deve essere analizzato a fondo.
4) È possibile risalire ai responsabili? Le autorità prestano la dovuta attenzione al fenomeno?
Sì, naturalmente. I casi che abbiamo documentato sono stati commessi sia da figure non istituzionali (criminalità organizzata ma anche aziende private) che da rappresentanti delle istituzioni (uso eccessivo della forza contro manifestazioni pacifiche, ad esempio, sfociate in sgomberi e distruzione delle case delle comunità indigene). In ogni caso, va tenuto conto che anche quando gli atti non sono commessi da esponenti dello stato, questi possono essere ritenuti responsabili secondo il diritto internazionale, quando vi sia tolleranza, complicità o acquiescenza degli agenti statali che avevano l’obbligo di prevenire o reprimere. Voglio anche sottolineare l’obbligo da parte degli Stati di prevenire e punire atti di tortura e maltrattamenti in tutte le situazioni di privazione o limitazione della libertà. Nei casi indicati nella relazione nulla di tutto questo è stato fatto.
Ad esempio, secondo le informazioni ricevute dai gruppi di lavoro in Guatemala, le società NaturAceites e CGN Maya Níquel, le società idroelettriche, i coltivatori di canna da zucchero, gli allevatori e gli uomini d’affari delle piantagioni di gomma insieme con il supporto di membri delle società di sicurezza private delle fattorie vicine e alcune figure di leader comunitari corrotti ( potendo contare sulla complicità di funzionari pubblici) hanno tollerato e facilitato gli sgomberi e con essi la tortura dei membri delle comunità Q’eqchi’. In effetti, il Comitato contro la tortura ha già mostrato la sua profonda preoccupazione per il comportamento delle società di sicurezza private.
5) Quali sono le ferite lasciate da atti di violenza e tortura a livello collettivo?
Nel rapporto stabiliamo che le molestie, le minacce, la criminalizzazione e la persecuzione dei leader e delle autorità indigene, così come i casi di violenza sessuale contro donne e ragazze indigene, hanno un effetto diretto sulle loro comunità, nella misura in cui si configurano come un messaggio per trasmettere paura, sottomissione e disprezzo per le loro lotte.
Inoltre, i massacri, la repressione militare e poliziesca contro i migranti indigeni che si spostano dalle campagne alla città, le spedizioni militari, l’esproprio delle terre, le espulsioni forzate e l’attuazione di progetti senza previa consultazione delle popolazioni locali, sono atti di violenza radicati nella storia che vengono continuamente esercitati contro le comunità e i popoli indigeni.
Purtroppo gli impatti psicologici della tortura sono più difficili da provare rispetto a quelli fisici e ancor di più in un contesto razzista. Per le popolazioni indigene, l’equità della giustizia non funziona, lo squilibrio strutturale è così profondo che devono affrontare barriere geografiche, linguistiche, culturali, come quando i leader indigeni vanno in tribunale e le loro voci non vengono ascoltate. Gli effetti della tortura, sebbene non siano visibili, sono molto profondi.
Un buon esempio degli impatti collettivi è ben visibile nel caso dei leader indigeni privati della libertà (esempio il caso dei mapuche machi e lonko cui si riferisce il rapporto). Nella cultura mapuche, il benessere e l’integrità della persona dipende dall’equilibrio tra il corpo sociale o collettivo e il suo ambiente. Pertanto, la violenza esercitata su uno dei membri della famiglia o della comunità ha una correlazione diretta con la sofferenza, la malattia e la morte di altri membri della comunità.
In altre parole, dai casi presentati possiamo vedere che l’obiettivo della criminalizzazione e della detenzione dei leader indigeni è stato quello di rompere l’unità collettiva e comunitaria. La reclusione di un leader di comunità indigena non solo priva tutti i membri della sua comunità delle funzioni che svolge, ma genera anche preoccupazione e angoscia collettiva per le difficoltà che il suo leader affronta, tipiche della reclusione. Inoltre, la tortura attraverso la prigionia non è subita solo dal leader spirituale indigeno e dalla sua famiglia, ma anche dall’intera comunità.
Infine, nell’ambito della detenzione, nei paesi analizzati è apparso evidente come non vengano prese tutte le misure necessarie per rispettare le garanzie generali a cui ogni individuo di cultura indigena ha diritto. Questa non conformità con gli standard internazionali genera danni e sofferenze nei leader indigeni e rappresenta una forma di tortura.
6) E’ possibile fare una stima approssimativa del numero delle vittime e dei luoghi più colpiti dal fenomeno?
È molto difficile fare delle stime in quanto non ci sono dati aggregati sul fenomeno con particolare riferimento alle popolazioni indigene. La presente relazione è la prima ad affrontare la questione da questa prospettiva. È ancora necessario lavorare in questa direzione in modo che le organizzazioni per i diritti umani, le organizzazioni che lavorano sulla tortura e le organizzazioni che difendono i diritti indigeni lavorino insieme per rendere visibili l’impatto collettivo e gli atti di tortura che vengono commessi quotidianamente contro gli indigeni.
7) Cosa può fare la comunità internazionale per fermare questo fenomeno e sostenere le vittime della tortura?
Il rapporto chiarisce l’urgenza per i paesi e le autorità della regione di applicare il quadro internazionale e il quadro nazionale per la prevenzione e l’eradicazione della tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti in una prospettiva collettiva, differenziata e culturale, che protegga e prevenga la violenza contro la popolazione autoctona. Propone inoltre standard internazionali avanzati sui diritti delle popolazioni indigene da una prospettiva olistica e cosmogonica che consenta di rendere visibili crimini come la tortura in un soggetto collettivo.
Si conclude poi con raccomandazioni specifiche per i meccanismi per i diritti umani delle Nazioni Unite e del Sistema interamericano, gli Stati in generale, gli Stati individualmente considerati e il movimento per i diritti umani contro la tortura. Tra questi spiccano:
1) criminalizzare la tortura e i trattamenti inumani a livello nazionale in conformità con gli standard internazionali e includendo in particolare la discriminazione come uno dei fattori alla base per la definizione di tortura;
2) riconoscere la voce dei popoli indigeni, garantendo che in tutti gli spazi e i meccanismi anti-tortura vi sia una pluralità di voci ed esperienze e una rappresentazione di giovani, donne e uomini indigeni;
3) predisporre osservazioni generali o rapporti a livello delle Nazioni Unite e del Sistema interamericano sulle particolarità della tortura nelle popolazioni indigene, analizzando gli obblighi degli Stati di garantire la prevenzione, la protezione e il risarcimento per gli atti di tortura a partire da un approccio collettivo, differenziato e culturale.