BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

I Balcani trent’anni dopo 

0 0
Forse aveva ragone Winston Churchill quando sosteneva che i Balcani producessero più storia di quanta fossero in grado di consumarne. È stato così nel ’14, quando lo sparo di Sarajevo ad opera dell’irredentista bosniaco Gavrilo Princip ai danni dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia provocò lo scoppio della Prima guerra mondiale. Ed è stato così anche trent’anni fa, quando la regione si trasformò in un inferno. Colpa della scomparsa di Tito, indubbio collante di una comunità in cui, dopo la sua morte, sono riaffiorati gli odi, i rancori e tutto il portato di etno-nazionalismo che ha condotto quelle terre nell’abisso. Colpa dell’abbattimento del Muro di Berlino, che ha mutato per sempre gli equilibri internazionali.
Sia quel che sia, parliamo di una carneficina che, dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, ha squassato gli anni Novanta, portando nelle nostre case immagini atroci e costringendoci ad assistere allo scempio di Srebrenica, a un diffuso bagno di sangue e a una guerra straziante nel cuore dell’Europa. Ricordo bene i bombardamenti su Belgrado, gli aerei che partivano dalla base NATO di Aviano, la preoccupazione generale, le divisioni all’interno della sinistra, il disincanto collettivo e il desiderio di un mondo diverso che nasceva proprio in quegli anni, grazie al popolo di Seattle e alla critica a un modello di globalizzazione capitalistica, liberista e pericolosa di cui le cui successive guerre in Afghanistan e in Iraq costituiscono la quintessenza.
Di fronte a ciò che sta avvenendo in queste settimane in Ucraina, riviviamo la stessa angoscia di allora moltiplicata per mille, considerando la portata del conflitto, la complessità del momento storico che stiamo attraversando, reduci da due anni di pandemia, milioni di morti in tutto il mondo e un collasso dell’economia senza precedenti, e il rischio legato allo spettro dell’arma atomica che incombe sulle nostre teste.

Trent’anni dopo analizziamo gli orrori balcanici da un osservatorio intriso di terrore, mentre la guerra sconvolge le nostre residue certezze, mentre la politica dà quasi ovunque il peggio di sé, mentre le sanzioni alla Russia cominciano a far sentire i propri effetti devastanti anche alle nostre latitudini e mentre, con ogni evidenza, non siamo in grado di capire quanti rischi stia correndo l’Unione Europea di sfaldarsi. All’inizio di questa mattanza speravo che qualcuno si rendesse conto che non esistono conflitti buoni e che la guerra è sempre una montagna di merda, caratterizzata da stupri, barbarie e violenze d’ogni sorta, ma sta accadendo il contrario, a dimostrazione di quanto sia ancora straordinariamente ingenuo. Il punto è che, a differenza di ciò che potrebbero consigliarmi analisti e commentatori molto più esperti e competenti, voglio rimanere tale. Voglio rimanere tale per continuare a condannare con sdegno ogni abominio, per non arrendermi al male, per non accettare la continua sconfitta dell’umanità, per costruire un mondo migliore, nel mio piccolo e per il poco che posso fare, e per non smettere mai di condannare con la stessa fermezza tutte le follie, senza distinzioni di divisa, nazionalità e colore politico.

Trent’anni dopo mi rendo conto che tanti, troppi hanno cambiato idea, sono diventati barbari a loro volta, guerrafondai a tratti consapevoli e a tratti no, rassegnati al peggio e poco intenti ad accettare il dubbio, il ragionamento e i pochi altri elementi che possono ancora salvarci in un contesto di propaganda devastante e di perdita del minimo buonsenso.
Trent’anni e siamo tutti più poveri. Non solo a livello economico ma anche etico, culturale e di socialità, essendo venuta meno quella comunità solidale che nei giorni della catastrofe jugoslava ci consentiva ancora di ragionare insieme mentre oggi, non esistendo più, ci costringe a vivere in perenne contrasto fra noi, ipotecando il futuro delle nuove generazioni e mettendo a repentaglio la tenuta stessa del pianeta.
Trent’anni e non sappiamo più nemmeno piangere, perché per piangere occorre avere dei sentimenti e a noi è rimasta solo l’ipocrisia.

Iscriviti alla Newsletter di Articolo21