Formichina. Un “racconto morale”

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La piscina di venticinque metri permetteva una buona nuotata, quattro vasche per uno spunto vigoroso di cento metri, quaranta per la blanda tirata di un chilometro. Francesco si era tuffato verso la fine mattinata, quando il sole saliva allo zenith e rendeva l’aria più mite.
Conclusi i cento metri però, il cielo si era rannuvolato e cominciava a piovigginare. Le gocce rimbalzavano sulla superficie dell’acqua, e purtuttavia Francesco non aveva voglia di uscire, qualcosa lo tratteneva. Così si era lasciato trasportare dalla piacevole corrente
termale che intiepidiva la piscina, un sinuoso toboga acquatico che sfociava nel bacino maggiore. La pioggia aveva intanto rinforzato, e mentre si accingeva a raggiungere la scaletta, aveva scorto accanto a sé una minuscola formica che galleggiava in affanno.

“Cos’è successo? – l’aveva apostrofata accostando amorevolmente la mano – È stato il vento a gettarti nell’acqua?” E cercava di distendere sotto di lei il palmo aperto perché la creatura vi trovasse appoggio e salvezza. Invece a ogni tentativo l’equilibrio instabile della superficie si infrangeva e l’insetto veniva risospinto lontano. Per metà divertito e per metà incaparbito, non si era arreso al futile dispetto, riaccostando ogni volta la mano perché l’animaletto salisse a bordo, ma senza mai riuscire nell’impresa. A un certo punto però s’era accorto che la formica stava affondando, forse non aveva più le forze per tenersi a galla; allora aveva riunito le mani a coppa e finalmente era stato in grado di offrirle su un dito l’appiglio per scamparla. Operazione riuscita. Con rapide falcate aveva riguadagnato il prato oltre il bordo della piscina e, incurante del freddo, si era attardato a cercare un angolo asciutto nel verde in cui deporre quell’esserino privo di peso. Ma prima di allontanarsi, chissà perché, si era congedato da lei con lepida compitezza: “Ciao Formichina, io mi chiamo Francesco, ricordati di me”.

Quindi spiccando un’affrettata corsetta aveva recuperato l’accappatoio di morbida spugna e vi si era avvolto in cerca di calore. La giovane compagna gli stava venendo incontro: “Come stai? Hai freddo?” “Ho salvato una formica che stava annegando” aveva risposto
strofinandosi i capelli incappucciati; “sono proprio contento di me”. Lei gli aveva lanciato un malizioso sorriso di tenerezza e la giornata era scivolata via in santa beatitudine. Alla formichina non aveva più pensato. Fino a quando….

Era trascorso del tempo, e non starò a raccontarvi come era accaduto che il destino di Francesco, in genere assistito dalla fortuna, avesse subito un brusco sovvertimento. Se la passava proprio male e non sapeva più come risalire la china. Una notte senza luce, vagando alla disperata nella grande città, si era ritrovato in una di quelle squallide palestre di periferia dove si organizzano scommesse clandestine alla cieca. Ogni pretesto era buono, anche il più infame. In un’atmosfera surriscaldata, brutale, sovreccitata, qualcuno stava sfidando i presenti nel sollevamento pesi. Era un palestrato dai muscoli scolpiti dalla lunga pratica di esercizi alle macchine, gonfio e lucido come un culturista; indossava un mefisto per nascondere il sembiante e una canottiera nera sbracciata che serviva a esaltare la possente massa corporea. Le scommesse fioccavano, e le quotazioni erano salite alle stelle nel momento in cui tra gli sfidanti s’era fatto avanti Francesco: il suo fisico
denutrito e logorato dalle avversità non lo accreditava come challenger credibile, munito di una pur minima possibilità di riuscita.
“Cinquanta chili”, aveva digrignato il campione sogguardandolo. Come a sottolineare: per te bastano e avanzano.

“Cinquanta chili” aveva ripetuto Francesco accettando inerte la sfida e la posta proibitiva. Quale probabilità poteva mai avere di prevalere? I bookmaker lo davano uno a quaranta tanto per non lasciar crollare le offerte, e la borsa già sostanziosa era lievitata a un bottino
vertiginoso. Non c’era un solo astante che non si fosse gettato nella mischia con la bramosia di guadagnare soldi a mani basse. La rete di ragno dell’azzardo li aveva catturati come una droga.
Il campione già immergeva le mani nella polvere di segatura, per asciugarle dal sudore e assicurare alle dita la presa di una morsa. L’arbitro di gara non aveva avuto nulla da eccepire a quell’impari lotta; neppure quando da sotto il mefisto la voce roca del colosso aveva imposto con protervia le proprie regole: “Comincio io e senza una seconda chance, per nessuno dei due.”

“Non è ammessa rivincita”, aveva replicato l’arbitro per essere più chiaro. Francesco s’era limitato ad annuire. Il pesista s’era chinato sul bilanciere e i muscoli della schiena erano affiorati turgidi come la gobba di un bisonte; poi aveva girato attorno all’attrezzo per torreggiare di fronte alla ressa infoiata degli spettatori. Nella palestra in penombra il cercapersone s’era piazzato sopra l’atleta scultoreo e l’occhio di bue aveva illuminato a giorno il suo fascio di nervi guizzanti sotto la pelle. L’arbitro aveva dato il via libera.
Il campione senza scomporsi di un capello s’era piegato sulle gambe, aveva afferrato l’asta d’acciaio appesantita alle estremità da due dischi di ghisa da venticinque chili, e hop, con un unico balzo elastico delle cosce mastodontiche aveva portato la barra al petto; il
tempo di tendere i pettorali poderosi, sistemare con precisione l’appoggio a terra dei piedi, uno davanti all’altro, e up, con uno strattone prepotente delle braccia aveva innalzato l’attrezzo pesantissimo fin sopra la testa, quasi fosse un fuscello. Sembrava la statua di Ercole, le braccia tese e immobili come tronchi nodosi per un tempo che a tutti apparve interminabile, mentre i suoi occhi lanciavano fiamme dai fori del cappuccio nero. Poi gli era bastato un ripiegamento dei bicipiti mostruosamente rigonfi, aveva abbassato il bilanciere, e l’aveva lasciato cadere a terra senza alcuno sforzo. Il breve frastuono era stato istantaneamente coperto dagli urli di giubilo, gli applausi, i gridi gutturali, confusi in un unico boato che aveva fatto vibrare i muri e i vetri sporchi della palestra.

Ora toccava allo sfidante prendere posto, mentre l’esaltazione alcolica degli scommettitori non accennava a scemare. Francesco si era tolto la giacca frusta e la camicia sfilacciata, restando coperto da una canottiera lisa, a coste, uno straccetto raccattato nei rifiuti. Era magro, visibilmente smunto, i muscoli degli avambracci gli si allungavano asciutti come lacci sfibrati, privi di tono. Il pubblico s’era d’un tratto placato, come se osservasse una bestia avviata al macello. Chi fumava strafottente, chi ghignava con la bottiglia in mano, chi sniffava apertamente in attesa dell’inevitabile disfatta. Per Francesco cinquanta chili erano un peso abnorme, superiore alle proprie forze: lui stesso pesava forse poco di più. Ma ne andava della propria vita, e non aveva scampo. Si era chiuso in un silenzio tragico, come stesse chiamando a raccolta tutti gli spiriti della sua grama esistenza; chissà a chi si appellava per affrontare quell’impresa spropositata, forse pensava a un amore lontano, forse a suo padre che si ergeva simile a un gigante per i suoi occhi ammirati di bambino. O forse tornava al sogno della notte precedente, al quale non aveva saputo dare un’interpretazione: gli mancava il respiro, stava affogando, e una mano invisibile l’aveva
salvato dai flutti. Anche adesso gli sembrava di annegare, la gabbia toracica era di legno, non riusciva a tirare su il fiato. Si era accostato all’attrezzo avvertendone l’ostilità, l’inimicizia: come avrebbe mai potuto soltanto spostare di un centimetro quell’ammasso di ferro che gravava sul pavimento. Chiuse gli occhi per un lunghissimo istante, e quando li riaprì vide solo la cappa di fumo sospesa sulla folla rissosa intorno a lui, una caligine talmente spessa da non riuscire a distinguere neppure i contorni dei volti, beffardi e sprezzanti.

Un ceffo da patibolo gli tirò addosso la sua cicca accesa con uno scatto delle dita. Bastò quel gesto ad animare la feccia; un altro gli aveva gridato: “C’hai sete? Toh, bevi!” e gli aveva lanciato in faccia il mezzo bicchiere di birra scatenando risate. Ma Francesco non si era mosso, non era quel dileggio a ferirlo, da tempo aveva rinunciato alla dignità personale, assuefatto a ogni ignominia. Allora un tizio s’era risentito: “’An vedi che trucido, se crede el re, e dàteglie ‘na corona, no?”
L’energumeno aveva attorcigliato con le tenaglie un filo spinato arrugginito e scimmiottando le movenze da gran sacerdote s’era avvicinato a passi pomposi per calcarglielo in testa con una manata arrogante, mentre gli altri si sbellicavano dalle risa. “Vuoi vince? C’hai bisogno di soldi? Tiè, raccogli questi e vattene.” E una gragnola di monetine era atterrata ai suoi piedi, mentre rivoli di sangue gli scendevano lungo il viso emaciato.
Il miserabile non aveva reagito agli oltraggi, aveva flesso le ginocchia e s’era inchinato a testa bassa ad afferrare il bilanciere, non sapendo neppure lui se sarebbe riuscito a sollevarlo da terra; aveva teso tutti i muscoli che affioravano dalle scarne braccia, e sembrava proprio un ecce homo pronto alla croce. Intorno s’era creato un vuoto sinistro, un silenzio da carnefici. “Mo’ glie se stacca er braccio”, aveva commentato a mezza bocca un boia che sembrava provare pietà, ma era solo disprezzo. Invece, mentre lo scomunicato pronunciava il
sinistro presagio, Francesco con uno sforzo inaudito aveva innalzato i pesi fino al torace, tenendo i gomiti piegati mentre le gambe tremavano e cominciavano a vacillare. La fatica lo aveva schiantato, teneva gli occhi sbarrati davanti a sé in preda a un’allucinazione. Un
fregnetto buffo vestito da fantino, con la visiera del cappello girato sulla nuca, gli s’era fatto sotto per incoraggiarlo: “Daje, che mo’ schiatti. Nun te vorrai mica pappà li sordi mia”. Ma Francesco non aveva neppure girato lo sguardo, gli mancava la forza persino di respirare e sapeva di dover risparmiare ogni residuo di energia. Il suo sfidante, l’incappucciato, scuoteva la testa sconsolato e lo demoliva a morsi di parole: “Ma lascia perde, ah ridicolo! Nun je la fai, nun vedi che te stai a cagà le budella? E me vieni a sfidà a casa mia, meriteresti di restarci sotto.”

Quando ormai tutti, ma proprio tutti erano convinti che fosse sul punto di scoppiare, Francesco aveva serrato le palpebre, e rivolta la faccia al cielo come se pregasse aveva inalato quanta più aria poteva nei polmoni per tentare il tutto per tutto nello strappo finale: o crollava senza rimedio oppure spingeva in alto il bilanciere diventato a quel punto una montagna di granito.
E le braccia erano volate fino a tendersi tutte: chissà per quale miracolo, ce l’aveva fatta. Un bramito roco, cupo, incredulo, prolungato, rabbioso, s’era addensato nell’aria irrespirabile della palestra, un coro di stupore o peggio di sgomento di fronte al prodigio.
Solo l’incappucciato non si prestava a quella farsa: “Beh, che ha fatto; so’ stato io il primo, non vorrete mica daje il pareggio!”
Francesco tremava sui garretti, stava per soccombere, mentre l’arbitro gli s’era accostato fin quasi a sfiorarlo e aveva decretato:
“Nessun pareggio, sul disco di destra c’è una formica, lo sfidante ha sollevato cinquanta chili più una formica. Non c’è seconda prova: il vincitore è lui.” Mentre un urlo feroce s’era scatenato dalla ressa amorfa degli assatanati scommettitori, Francesco allo stremo delle forze aveva lasciato cadere il bilanciere ed era crollato in ginocchio. A capo basso udiva il frastuono che non si calmava attorno a lui, gli insulti, le
ingiurie, le maledizioni. Rivolte a chi non avrebbe saputo dire: a lui? All’altro? Alla cattiva sorte? All’imperdonabile dabbenaggine di puntare su quel campione di latta? “Vestitevi – si rivolse l’arbitro padrone a Francesco dandogli del voi – e passate nel mio ufficio”.
Il boss s’era allontanato con un codazzo avvelenato che gli calpestava l’ombra e non si rassegnava a ingoiare la cocente conclusione. Ma i giganteschi guardaspalle scoraggiavano ogni atto inconsulto aprendo un varco minaccioso nella folla.

Quando il bilanciere era caduto rimbalzando sul pavimento con un rumore da sfondare i timpani, la formica era stata sbalzata in aria ed era atterrata sul dorso della mano di Francesco.
“Tu formichina?” Aveva esclamato l’uomo incredulo, con le lacrime agli occhi. “Sei venuta fin qui per salvarmi?”
“Quando stavo affogando mi hai tratto in salvo, Francesco, e mi hai chiesto di ricordarmi di te.”
“Ma io non so neppure come ti chiami: chi sei, non conosco il tuo nome.”
“Dio”. Rispose la formica.


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