Beniamino Andreatta ci manca moltissimo. Ci manca la sua lungimiranza, ci manca la sua lucidità d’analisi, ci manca il suo sguardo costantemente rivolto al futuro, ci mancano le sue intuizioni, a cominciare dall’Ulivo, che fu negli anni Novanta una delle principali novità del panorama politico italiano uscito terremotato dopo Tangentopoli. Ormai è un progetto fuori dalla realtà, irripetibile in quei termini, ma quell’incontro fra diversi, quel rapporto dialettico fra le grandi culture del Novecento, quella salutare contrapposizione al berlusconismo in ascesa, quel modello che seppe offrire alla sinistra italiana, nelle sue molteplici sfaccettature, una prospettiva di governo, rimane comunque una pietra miliare del nostro recente percorso.
Andreatta, del resto, è sempre stato un uomo controcorrente, impossibile da identificare con l’establishment. Partigiano di formazione cattolica, protagonista, a modo suo, del Sessantotto, innovatore fin dalla gioventù, costruttore di scenari e di universi differenti, fondatore di università e centri studi, innovatore a tutto tondo, caustico e irriverente, sempre con la battuta pronta e strenuo avversario di ogni ruberia: queste erano le sue caratteristiche più evidenti. A ciò aggiungiamo la sua impossibilità di vivere confinato nel presente e di accettare le maglie troppo strette di una democrazia che, al pari di Moro, avvertiva il dovere di ampliare, rendendola inclusiva, abitabile per tutte e per tutti e pronta ad accogliere le nuove generazioni. Non a caso, Andreatta è stato uno dei pochi esponenti politici, nella stagione della spesa allegra, a preoccuparsi della sostenibilità dei conti pubblici, contrastando una tendenza che ci avrebbe condotto nel baratro e che ci ha nettamente indebolito sulla scena internazionale per quanto concerne credibilità e autorevolezza. Pagò un prezzo altissimo per la sua opposizione a trame oscure e segreti indicibili e, da ministro del Tesoro, rinnovò i vertici degli istituti bancari senza chiedere il permesso a nessuno, resistendo a ogni pressione e venendo per questo escluso dal governo per un decennio, tornando sulla scena solo nell’ora dell’abisso, quando la Prima Repubblica era ormai in agonia e si palesavano all’orizzonte nuovi, devastanti equilibri.
Quindici anni senza questa voce coraggiosa e limpida, che purtroppo si era spenta già nel dicembre del ’99 e da allora non si è mai ripresa. Un dolore ancora forte, una sofferenza che è rimasta in noi, soprattutto se pensiamo a ciò che sarebbe potuto essere e, invece, non è stato. Ci ha lasciato in eredità le sue intuizioni, l’AREL, la rivista su cui io stesso ho oggi l’onore di scrivere, il suo rifiuto di ogni fascismo e barbarie e il suo invito a non arrendersi mai, specie al cospetto della prepotenza e della crudeltà altrui.
Beniamino Andreatta, quindici anni dopo. Un senso di solitudine che non si attenua e un’eredità di cui andar fieri, con la speranza di esser degni di raccoglierne il testimone.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21