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Vita di un giornalista che non si è mai arreso. Intervista con Gianni Minà

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Gianni Minà appartiene, oggettivamente, alla rara categoria degli intramontabili. Del resto, è uno dei pochi a non essersi mai arreso alla barbarie, a non essere mai sceso a determinati compromessi, a non essere mai venuto a patti con la propria coscienza per ottenere posti di potere, nell’ambito di una professione in cui tanti, troppi si sono invece piegati di fronte al nuovo statuto del mondo, basato su un’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani e la dignità della persona.
“Una vita da giornalista”, il documentario autobiografico realizzato in compagnia della moglie Loredana Macchietti, aprirà il B&Fest di Bari il prossimo 25 marzo. Un’opera in cui la vita e il lavoro di Minà vengono ripercorsi attraverso i racconti, gli aneddoti e le passioni di alcune personalità, fra loro assai diverse, che hanno incrociato il loro cammino con quello di uno dei grandi narratori del nostro tempo.

Una vita da giornalista”, spesa a raccontare storie, a cercare personaggi, ad accogliere e comprendere drammi. Può tracciare un bilancio di quest’avventura umana?
Il giornalismo è stato la mia più grande passione, come disse Enzo Ferrari sulle sue automobili, “l’ho sposato e non ho mai avuto l’intenzione di divorziare”.

Come nasce questo documentario autobiografico? Che ruolo ha avuto nella sua vita professionale sua moglie Loredana, curatrice del film in questione?
Nasce dalla necessità di tirare le fila di un processo di memoria che abbiamo cominciato qualche anno fa con i libri Alì,  Così va il mondoMaradona non sarò mai un uomo comune e poi, sempre con la minimum fax Storia di un Boxeur Latino, dove racconto la mia storia familiare e aneddoti legati agli incontri più noti che hanno segnato la mia vita personale e professionale. Il documentario è stato il punto di arrivo naturale, riflessioni condivise con chi, quei momenti, li ha vissuti insieme a me. Sarebbe riduttivo definire Loredana come mio braccio destro, perché non è così. È stata, di volta in volta, editore, produttore, curatore di tutti i progetti realizzati negli ultimi tre decenni. Mi limito a dire che molti progetti, senza la sua caparbietà, non avrebbero mai visto la luce. Con questo documentario “Gianni Minà una vita da giornaista” si è voluta misurare nel ruolo di regista.

Vianello, Arbore, Frei Betto: personalità molteplici e profondamente diverse fra loro. Qual è il filo rosso che le tiene insieme? Che ruolo hanno avuto nella sua vita e nella sua attività giornalistica?
Per affinità elettive o per mia curiosità personale, credo mi sia sempre avvicinato a personalità che incarnassero lo spirito del proprio tempo. Penso a quando conobbi Vianello, eravamo ragazzi, ci vedevamo al bowling insieme a Gino Paoli, Califano e Luigi Tenco. Con lui sono rimasto molto amico. Quella era la realtà italiana del boom economico, contraddistinta, almeno per una fascia della popolazione, da una necessità di serenità, ingenuità, di estati vissute a cuor leggero. Frei Betto, teologo della liberazione, invece è stato uno dei miei Virgili per comprendere politicamente l’America Latina. Entrambi, a loro modo, avevano intercettato in maniera molto chiara ciò che realmente stava accadendo intorno a loro e ne riportavano la propria lettura.

Lei ha sempre privilegiato i rapporti umani, al punto che ci sono interviste che solo lei, sia detto senza piaggeria, avrebbe potuto realizzare, specie nei momenti tragici in cui i protagonisti hanno accettato di parlarle. Che ruolo ha l’umanità nel giornalismo? Per quale motivo oggi non è considerata più un valore fondante, anzi è ritenuta quasi trascurabile?
È la condizione sine qua non. Non si rubano pezzi di intimità a una persona solo per fare notizia, io l’ho sempre pensata così. L’umanità permette di avere profondo rispetto per qualunque verità si prospetti lungo il proprio cammino professionale. Uno può anche pensarla in maniera completamente diversa dal proprio interlocutore, ma rispettarlo ci permette di approfondire storie che altrimenti rimarrebbero inascoltate. Questo richiede tempo e molto pazienza. Sono consapevole che il mondo dei media oggi è diverso, vince la velocità, ma si tratta pur sempre di avere a che fare con degli essere umani, ieri come domani.

 

Noi l’abbiamo vista insieme a miti come De Niro, Maradona, Muhammad Ali. Ci racconta un incontro degli esordi che l’ha segnata? Qual è stata la sua prima intervista? Che differenza c’è fra intervistare una persona “comune” e intervistare un divo?
Non ho mai subìto il fascino del mito, perché ho sempre puntato all’umanità. A volte è pure divertente. Ad esempio, chi mi fece conoscere Lula fu il mio amico Antonio Vermigli, il postino in pensione di Quarrata, della Rete Radié Resh. Ogni anno mi portava a casa questo interessante metalmeccanico brasiliano e con lui stavamo interi pomeriggi a parlare. Finchè divenne presidente del Brasile e fu naturale intervistarlo. Le grandi amicizie e le grandi interviste, per quanto mi riguarda, sono spesso iniziate così.

Diceva Enzo Biagi: “Sono grato a chi accetta di parlare con me: mi usa una cortesia”. Vi ha sempre accomunato la disponibilità nei confronti del prossimo e la scarsa disponibilità a determinati compromessi. Quali sono gli insegnamenti che sente di aver tratto in decenni di colloqui col mondo?
Credo la pazienza e l’umiltà. Partire con il proprio preconcetto, imporre la propria visione del mondo a chi ti sta di fronte, metterlo all’angolo ed estorcergli pezzi di intimità sono tutte cose che detesto e che ho sempre cercato di evitare, nonostante da giovane uno sia più propenso a farlo, pensando che tutto è lecito pur di tornare in redazione con un pezzo sensazionale.

Lei è sempre stato attento a tutto ciò che accade in Sud America e in tutti i Sud del mondo. Oggi in Cile è arrivato al governo il giovane Boric. Cosa si aspetta? Conoscendo la storia travagliata di quel paese, prevale in lei la paura o la speranza?
La sua vittoria mi dà speranza. Il risultato è stato in linea con i flussi di mobilitazione sociale che il paese sta vivendo dal “revontón” del 2019, in cui ancora una volta gli studenti sono stati protagonisti delle proteste. Lo stesso Boric, giovanissimo, viene da lì, è stato presidente della Federazione studentesca dell’Università del Cile, rappresenta una sinistra aperta e sostenitrice della difesa dei diritti umani, ben consapevole della storia della sua nazione. E vederlo prestare giuramento di fedeltà al suo popolo, visibilmente emozionato, insieme ai suoi neo-ministri (di cui la metà donne), tra cui Maya Fernàndez Allende, nipote proprio di quel Salvador Allende, mi ha commosso. Ma questa notizia, importante, non ha avuto nessuno spazio tra i media mainstream. Nulla di nuovo sotto il sole…

Ancora Biagi asseriva: “La libertà è come la poesia: non deve avere degli aggettivi”. Se lei dovesse usarne uno per definire la sua carriera, quale sceglierebbe? Quali progetti ha per il futuro?
Non le saprei rispondere, sono solo grato alla vita, questo sì. Per il futuro intendo guardare di più le mie figlie, scoprire insieme quali avventure riserverà loro la vita. E scrivere, ogni tanto.


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