In “Si regalavano infamie” (lo storico Procopio dixit) non c’è un vero e proprio sottotesto a suggerire una lettura parallela del romanzo. La riflessione sulla guerra oggi in atto alla frontiera orientale dell’Europa, è indotta dalle indubbie analogie di contesto e da radici ideologiche condivise. Il più lontano medioevo resta infatti il suo tempo, con i barbari che hanno già invaso Roma e continuano ad assediarla per ridurla alla disperazione. A Bisanzio, Giustiniano (solo un co-protagonista) è all’apice della gloria, i suoi eserciti hanno portato l’impero d’oriente a dominare tutte le coste del Mediterraneo fino a farne un mare bizantino. Che ne rispecchia fasti e poteri, la non facile convivenza tra dispotismo asiatico e cristianesimo ortodosso; il ruolo delle singole personalità in questa storia e nella Storia. Ma Oriente e Occidente appaiono due realtà distinte e separate, già poste fronte a fronte.
Il re-incontro con le origini di simbologie imperiali che tutt’oggi persistono con un’ostentazione non meno rituale di quella di quasi millecinquecento anni fa -dalle aquile rampanti alle bandiere traboccanti d’ori che accompagnano gli armati in battaglia e i loro capi supremi negli incontri pubblici-, è un’incontestabile evidenza. Non occorrono auto-suggestioni improprie per cogliere problemi di equilibri geo-politici, condizioni materiali e sociali, stati d’animo, atmosfere che rimandano alle dispute etno-culturali e metafisiche, oltre che militari, da cui è scaturita l’aggressione della Russia di Putin all’Ucraina, riscopertasi tragicamente “terra di mezzo”. Al netto delle differenze tecnologiche (ovviamente rilevanti), la nostra modernità appare una differenza temporale da relativizzare. Lo svolgimento dei fatti, anche.
Com’è facile immaginare, “Si regalavano infamie” Liliana Madeo lo ha scritto assai prima degli avvenimenti che adesso stanno trascinando all’indietro il nostro continente e il mondo intero, verso forme di conflitto che venivano considerate ormai estromesse dal continente europeo. A conclusione di una ricerca che si avverte tanto ampia quanto scrupolosa nella documentazione che nutre le vicende narrate, si notano tratti di fatalismo para-religioso che Putin sembra aver recuperato per sostenere la sua sanguinosa rottura degli equilibri internazionali. Raccontati dall’autrice senza sovrapporvi mai la propria immagine. Così che calamitata dal testo la lettura va crescendo d’intensità, fino a restare coinvolta nel pathos che l’avvicina alla cronaca dei nostri giorni. Sebbene la scrittura resti sempre piana, grammaticale, classica. Nel pubblicarlo, c’è da credere che l’editore Pironti non sospettasse minimamente la lettura che del romanzo si può fare adesso.
Protagoniste ne sono due donne (per testimonianze storiche; e perché l’autrice, che tiene a dire di non essere né una storica né un’archeologa, non nega la sua per altro nota militanza femminista). La giovane Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano; e Antonina, la sposa del più glorioso dei generali, Belisario. Entrambe di umile estrazione sociale, non belle; perseguitate da un inestinguibile passato che come in una mefistofelica appartenenza ne marca intensamente odi e passioni. Intelligenti e superbe, di fortissima, anzi prepotente personalità e con l’ansia di rivalsa delle emarginate, dominano l’eros dei rispettivi consorti. Dunque, sono temibilissime e temute. Acute sensitive, avvertono gli intrighi di corte come i rabdomanti le sorgenti d’acqua, politiche di sicuro istinto proteggono a ogni costo i rispettivi mariti e se stesse, escogitando crimini perversi e le più crudeli vendette.
Incarnano la feroce dismisura presente nel “bizantinismo”, di cui vengono oggi accusati Vladimir Putin e la corte di oligarchi miliardari che lo circonda. La grandezza, la sicurezza dell’impero, in Teodora e Antonina non sono afflati d’idealismo, riscatto di popoli e nazioni, una visione che pur nelle sue stratificazioni sociali abbraccia le sorti di una grande collettività; bensì palpiti egolatri che infiammano un trionfo di sentimenti personali e luciferini. Alternati ad auto-distruttivi colpi di sgomento, mai a veri sensi di colpa. L’esistenza delle due donne, solo apparentemente amiche, in realtà -ciascuna nel proprio cerchio di potere- rivali e complici, viene progressivamente risucchiata nel gorgo di una decadenza e di una decomposizione che è anche fisica. Fino alla conclusione: che scarica in un rigo folgorante la tensione accumulata nell’intera tragedia.