Lo scorso venerdì 25 marzo, presso la Fondazione Basso a Roma rappresentata da Franco Ippolito e Giovanni Giannoli, si è tenuto un incontro alla presenza del padre naturale di Assange – John Shipton- attivista del movimento per la pace e impegnato con sobria disperazione nella campagna per la salvezza del fondatore di WikiLeaks.
Con sentimenti molto sorvegliati, e tuttavia così trasparenti dentro il mesto sorriso, un genitore angosciato ha trovato la forza di parlare del matrimonio del figlio con la compagna e avvocata Stella Morris celebrato il 23 marzo, ma di cui non ci sono fotografie. Un imputato speciale non ha neppure il diritto alla propria immagine. L’amore – però- vince sulla crudeltà, ha affermato con implicita evocazione delle poetiche di Cesare Zavattini o di Ken Loach.
La conferenza era organizzata insieme a MicroMega, Filosofia in movimento e Centro per la riforma dello stato. Si è trattato della tappa di un’azione avviatasi da tempo, per cercare di impedire l’estradizione del giornalista australiano detenuto nella prigione speciale di Belmarsh nel Regno Unito da tre anni, dopo la lunga permanenza nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Assange perse la libertà il 7 dicembre del 2010, quando cominciarono a piovere su di lui accuse di vario tipo, in particolare quella di spionaggio. In base a quest’ultima accusa, in caso di processo americano, si prospettano 175 anni di incarcerazione. La morte, dunque, come ha ricordato il padre, che ha evocato pure le precarie condizioni fisiche di oggi.
L’atto giudiziario più recente è stato il diniego da parte della Corte suprema britannica a presentare appello contro la decisione con cui l’Alta corte aveva ribaltato il verdetto di primo grado favorevole ad Assange proprio per motivi di salute. Insomma, sembrava che il viaggio d’oltre oceano si allontanasse. A questo punto, la decisione conclusiva spetta (curioso il sistema inglese, che pure si vorrebbe patria dello stato di diritto) alla ministra conservatrice degli interni Priti Patel.
La novità scaturita dal convegno è stato l’annuncio della preparazione di un ulteriore ricorso verso l’eventuale decisione sfavorevole dell’esponente del governo di Boris Johnson.
Ne hanno parlato Sara Chessa, giornalista che sta seguendo la vicenda per Independent Australia e componente della Ong Blueprint for Free Speech. E Stefania Maurizi, cui si deve un enorme impegno essenziale per illuminare un caso che il mondo dell’informazione, compreso quello democratico, ha colpevolmente occultato. Per fortuna, è in corso di preparazione la versione in lingua inglese del bellissimo libro Il potere segreto (Chiarelettere, 2021), in cui l’intera storia è descritta con puntigliosa passione.
Sulla stessa lunghezza d’onda sono stati gli interventi della caporedattrice di MicroMega Cinzia Sciuto, di Francesco Masala dell’Osservatorio Repressione, del magistrato Enrico Zucca, di Antonio Cecere per gli organizzatori.
Lo stesso Daniel Ellsberg, l’analista che rese possibili i Pentagon Papers pubblicati grazie alla tutela del primo emendamento della Costituzione di Washington (ora non riconosciuta a causa del ricorso strumentale all’Espionage Act del 1917), ha duramente protestato. Che fa Jo Biden?
Siamo di fronte ad un precedente terribile. Se non ci si occupa di tale insidia, il pericolo riguarderà presto la stessa libertà di informazione.
Il grido composto di John Shipton è stato raccolto in una sede così autorevole, intitolato non per caso a Lelio Basso, infaticabile difensore dei diritti. Il comitato italiano che segue il processo si allargherà, con il contributo del senatore Gianni Marilotti, che sta coordinando il comitato parlamentare per il monitoraggio del caso Assange. Il presidente della commissione per gli archivi e la biblioteca del senato aveva organizzato utilissimi confronti insieme al premio intitolato al giornalista scomparso Mimmo Càndito.
L’informazione omologata sulla guerra attuale ci fa capire quanto sia cruciale WikiLeaks. Le verità occultate vanno portate in superficie. Le buone pratiche di Assange non vanno dimenticate.