Ancora oggi, in Russia, circola una battuta su Stailn: “Segretario il popolo è contrario” gli dice uno dei suoi più stretti collaboratori e il dittatore risponde: “Cambiate il popolo”. E’ curioso vedere come buona parte di quelli che stanno, in questi giorni, contestando Putin e la Russia, ricadano in schemi mentali che sono degni del “nemico” non di una democrazia compiuta come la nostra. Per esempio, chiedendo ai giornalisti di dire quello che loro pensano sia giusto (è capitato con il collega Marc Innaro, corrispondente da Mosca) oppure se – e torniamo alla battuta su Stalin – contestano il popolo “codardo” o “culturalmente arretrato” se i sondaggi confermano che la maggioranza degli italiani è contro la guerra e il coinvolgimento del nostro Paese.
Come in ogni conflitto (l’Italia ci partecipa inviando armi, pur da una lista mai resa pubblica, all’Ucraina) non c’è solo il campo di battaglia, quello dove le prime vittime sono i civili, c’è anche il fronte interno, quello dove a rischio c’è altro cioè il valore stesso della democrazia.
Nel commento sulla guerra in Ucraina a prevalere è ormai l’italico partito del PUB, no non mi riferisco al britannico luogo d’incontro (lì almeno se dici una sciocchezza ti puoi giustificare dicendo che hai bevuto troppo) ma al Partito Unico Bellicista. Arruolati nel PUB sono gli opinionisti con l’elmetto quelli che – seguendo il magnifico esempio dell’intellettuale guerre-a-porter Bernard Henry Levy, bardo di ogni guerra dal suo attico sugli Champs Elysees – dettano strategie ai militari, chiedono al popolo di resistere anche se un litro di benzina costa più del Nobile di Montepulciano, ringhiano frasi alla Patton, esultano per l’incremento delle spese militari, insultano Putin dimenticandone la beatificazione ad opera di alcuni nostri politici nonostante l’omicidio della Politoskaya, bollano i pacifisti come collaborazionisti, nemici della patria.
Voi direte: bene sono opinioni come le altre, c’è spazio per tutti. Verissimo ma sto provando a parlare di qualcosa di leggermente diverso. In Italia è in atto una desertificazione della complessità dei conflitti, sta vincendo la semplificazione binaria dell’amico nemico, sul valore della pace è stato scaricato uno stigma feroce, la guerra è diventata normalità. Questo è un danno per la democrazia e sarebbe il momento in cui l’informazione tutta (in particolare il servizio pubblico che si fonda sul valore del pluralismo) se ne facessero carico.
Segue l’Afghanistan da tre lustri e considero quel conflitto come l’archetipo dell’assurdità di ogni guerra. Allo strumento bellico abbiamo dato vent’anni (dopo l’11 settembre) per risolvere i problemi del mondo, li ha solo aggravati. Nonostante la lezione di vent’anni sia davanti ai nostri occhi, senza dubbio alcuno (anzi additando quelli che il dubbio provano ad utilizzarlo come strumento di riflessione) sposiamo un altro conflitto.
George Orwell, che di guerra ne aveva combattuta una, ricordava sempre che le voci che si levano a favore di un conflitto, sono quelle di chi mai andare a combattere.
Oggi è più vero che mai, aggiungerei anche che si tratta di quelli che mai sentiranno il peso delle conseguenze economiche della guerra quando vanno al supermercato.