In questo film Mohammad Rasoulof si interroga sui limiti e le possibilità̀ cui è sottoposta la libertà individuale sotto un regime dispotico, in questo caso quello iraniano, e sui dilemmi che ne derivano. Lo fa attraverso quattro toccanti variazioni sul tema cruciale della forza morale e della capacità di opporsi alle minacce, apparentemente inevitabili, di un sistema politico coercitivo.
Quattro storie, drammaticamente e inesorabilmente connesse, che pongono i propri protagonisti di fronte a una scelta impensabile, per quanto semplice. Una scelta che, in ogni caso, corroderà̀ profondamente le loro vite e, per conseguenza, quella delle persone a loro vicine.
Promosso da Satine Film con il patrocinio di Amnesty International, “Il male non esiste” è un film che solleva questioni morali universali che scuotono le coscienze e impongono una riflessione profonda. Quelle di Heshmat, Pouya, Javad e Bharam sono storie diverse e apparentemente lontane ma inesorabilmente legate l’una all’ altra da un tormentoso dramma etico. Pur se ambientate nella società̀ iraniana e originate dai suoi spietati meccanismi repressivi, le vicende toccano profondamente la coscienza e la storia di ognuno di noi.
Come per l’Antigone di Sofocle il dilemma morale quando si presenta in modo inaspettato e deflagrante, pone tutti di fronte alla stessa domanda: al posto loro, tu cosa avresti fatto?
“Negli stati autoritari, l’unico scopo della legge è la conservazione dello Stato e non l’agevolazione e regolamentazione delle relazioni tra le persone.” – ha spiegato il regista Mohammad Rasoulof – “Io provengo da un tale Stato. E così, spinto da esperienze personali, ho voluto raccontare storie che si chiedessero: come cittadini responsabili abbiamo scelta nell’ applicare gli ordini disumani dei despoti? Come esseri umani fino a che punto dobbiamo essere ritenuti responsabili del nostro adempimento a quegli ordini? Di fronte a questa macchina dell’autocrazia, quando si tratta di emozioni umane, come ci si relaziona con l’amore e con la responsabilità̀ morale?”
“In una società in cui i diritti umani non sono tutelati, la loro violazione incombe sulle vite delle persone e sulle relazioni tra persone. Le quattro storie de ‘Il Male non esiste” illustrano drammaticamente questo condizionamento ma ci raccontano, soprattutto, come di fronte alle violazioni dei diritti umani – tra cui, in questo caso, la più estrema, ossia la pena di morte – resti la possibilità di una scelta individuale: si può dire sì, si può dire no. Le conseguenze, nell’uno e nell’altro caso, non saranno mai indolori. – Riccardo Noury, Portavoce Amnesty International Italia.
LA PENA DI MORTE IN IRAN
Se si esclude la Cina, che non fornisce dati ufficiali sulle condanne a morte eseguite, l’Iran è stabilmente il primo stato al mondo per numero di esecuzioni capitali: erano state almeno 246 nel 2020 e sono state oltre 250 nel 2021. Nel primo mese del 2022 sono state almeno 46. Secondo l’organizzazione non governativa Iran Human Rights, partner di Amnesty International, dal 2010 sono stati messi a morte oltre 6400 prigionieri.
Questi numeri vanno considerati con una certa prudenza: non tutte le esecuzioni vengono comunicate ufficialmente e le organizzazioni locali per i diritti umani ricostruiscono con grande difficoltà quelle che avvengono in segreto.
Quasi tutte le esecuzioni riguardano detenuti condannati per omicidio o reati di droga ma, negli ultimi anni, sono stati messi a morte attivisti politici ed esponenti di minoranze etniche, quali i baluci e i curdi. I processi sono frettolosi e sommari, talvolta basati su confessioni estorte con la tortura nella fase iniziale di isolamento carcerario subito dopo l’arresto.
L’Iran resta l’unico stato al mondo a mettere a morte minorenni al momento del reato, in violazione del diritto internazionale che vieta la condanna a morte di rei di età inferiore ai 18 anni: dal 2010 vi sono state ben 65 esecuzioni del genere.
Uno dei casi più noti di pena capitale riguarda Ahmadreza Djalali, scienziato con doppio passaporto iraniano e svedese, che il 17 ottobre 2021 ha trascorso il suo duemillesimo giorno dall’arresto.
Djalali, un esperto in Medicina d’emergenza che ha lavorato presso le università della Svezia, del Belgio e anche dell’Italia (in particolare, all’Università del Piemonte orientale), è stato arrestato nell’aprile 2016, accusato di spionaggio e condannato a morte, da un tribunale rivoluzionario di Teheran, un anno e mezzo dopo.
Secondo l’accusa, Djalali ha avuto diversi incontri col Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, fornendo loro informazioni sensibili su siti militari e nucleari iraniani e su due scienziati iraniani poi assassinati. Djalali ha sempre respinto queste accuse, denunciando che sono state una rappresaglia per il suo rifiuto di collaborare coi servizi iraniani per identificare e raccogliere informazioni dagli stati dell’Unione europea: “Sono uno scienziato, non una spia”, ha scritto dal carcere nel 2017.
Djalali è detenuto nella prigione di Evin, in condizioni di salute sempre più precarie. Da quasi un anno gli è impedito di contattare telefonicamente la moglie e i figli, che vivono in Svezia. La sua esecuzione viene periodicamente annunciata e poi rimandata. In favore della sua scarcerazione hanno preso posizione 121 premi Nobel e Amnesty International, il cui appello alle autorità iraniane ha superato le 220.000 firme.