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Gianni Cavina. L’ineffabile “perdente” del cinema di Avati

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E così, dopo Carlo Delle Piane, e tanti anni fa il caro Nick Novecento, il cinema di Pupi (e Antonio), l’inarrestabile commedia ‘balzachiana’ che dall’avita Romagna giunge alla littoria romanità di “Signor Diavolo”, perde uno dei suoi ‘elementi’ fondanti e costitutivi. Uno dei suoi interpreti ‘specifici’- Dopo lunga, debilitante malattia, ad 81 anni se ne va anche Gianni Cavina, il “perdente” ineffabile, disarmato di una lunga saga lunga oltre mezzo secolo.
Se tuttavia si scevera meglio nella sua avventura attorale (quella umana fu tribolata, generosa verso il prossimo, non particolarmente spensierata) ci si ritrova dinanzi una personalità, ‘trance de vie’ più complessa. Bolognese doc, classe 1940, Gianni Cavina si forma alla scuola teatrale di Franco Parenti, ma poi partecipa alla tumultuosa e allegra vita artistica della città, dividendo perfino con Lucio Dalla il palcoscenico nel cabaret per debuttare al cinema grazie al giornalista-regista Raffaele Andreassi che nel 1968 lo chiama sul set di “Flashback” con cui partecipa al festival di Cannes, vincendo il Globo d’oro per la migliore opera prima.

L’incontro con Pupi Avati, cui lo lega la passione per il jazz e quella per il cinema, avviene nello stesso anno con “Balsamus”, storia ai confini del grottesco che passa però sotto silenzio come il successivo “Thomas e gli indemoniati”. Ci vorrà la garanzia di un attore noto come Ugo Tognazzi e una fantasiosa sceneggiatura (a cui partecipa in prima persona) perché il nome di Gianni Cavina cominci a diventare familiare ad attori e produttori. Il film è “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone” che impone anche il regista Avati nel 1975.

Cinecittà, ventre molle, seducente, remunerante (per chi deve lavorare per cibarsi) adotta Cavina nel filone della commedia “scollacciata”, e “scacciapensieri”: con il “Buttiglione” di Mino Guerrini o “San Pasquale Baylonne” di Luigi Filippo d’Amico (in coppia con Lando Buzzanca). Il sodalizio con Pupi Avati invece continua senza scosse e porta al successo di “La casa dalle finestre che ridono” (1976), “Tutti defunti…tranne i morti” (1977), “Le strelle nel fosso” che fanno del regista bolognese un giovane maestro tra horror e fantasy. Nel 1979 Cavina conquista il suo primo ruolo da protagonista nei panni di Padre Lino in “Adsalut Pader” diretto da Paolo Cavara e da lui sceneggiato insieme a Enzo Ungari. Seguiranno “L’ingorgo” di Luigi Comencini, “Il turno” di Tonino Cervi, “Per favore occupati di Amelia” di Flavio Mogherini.

Nella vita di Cavina però Pupi Avati ritorna sempre più spesso da mentore e protagonista: alla fine lavoreranno insieme più di 20 volte, fino all’ancora inedito “Dante” in cui interpreta il notaio Pietro Giardino, nonostante la malattia già in stato avanzato. I primi veri successi comuni sono le due serie televisive “Jazz Band” e “Cinema!!!” alla fine degli anni ’70 mentre resta indimenticabile il suo Ugo Bondi, incallito giocatore di poker in “Regalo di Natale” del 1986, presentato in concorso alla Mostra di Venezia. Cavina ci tornerà dieci anni dopo con “Festival” (sempre per la regia di Pupi) con cui conquisterà in Nastro d’Argento come miglior co-protagonista.
Le interpretazioni senza il suo amico dietro la macchina da presa sono occasionali, ma non passano inosservato, nel loro misto (italianissimo) di candore e piccole viltà (delle quali poi penntirsi): “Non chiamarmi Omar” di Staino, “Sole negli occhi” di Andrea Porporati, “Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio, “Benvenuto presidente” di Riccardo Milani. Con un’eccezione che diede a Gianni Cavina una grande notorietà all’inizio degli anni ’90: la serie tv “L’ispettore Sarti” di Giulio Questi, Maurizio Rotundi e Marco Serafini dall’indimenticabile personaggio creato dal giallista Loriano Machiavelli. Con la sua voce pastosa, il fisico robusto, le mani grandi come pale, il sorriso di volta in volta ammiccante e dolcissimo, Gianni Cavina conquistò la platea televisiva, apparve in produzioni internazionali, diventò perfino un volto della pubblicità.

Gianni Cavina, per dote naturale, poteva contare su tante sfumature espressive e di postura, da consumato caratterista, svariando dall’eccesso farsesco alla raffinatezza comica, dall’intensità tragica e dolente alla naturalezza realista dell’uomo qualunque. “Ma era l’uomo a diventare indimenticabile anche dopo soltanto un incontro”- come a noi capitò durante un viaggio in treno e una breve sosta romana, a Termini, dove sembrò essersi smarrito tra la folla. E farsi beffe di se stesso.
Riservato fino all’eccesso, geloso dei suoi affetti familiari, accompagnato da una nota malinconica che celava dietro risate contagiose, Gianni sapeva farsi amare immediatamente, offrendo quella complicità spontanea che solo i veri emiliani sanno coltivare. Difficile ricordare una sua parola contro colleghi e amici, impossibile vederlo litigare veramente con Pupi e Antonio Avati. La loro storia è quella di un’amicizia generosa che non è mutata in 45 anni di vita artistica in comune: un matrimonio inossidabile.

–  Aggiornamento a cura di Angelo Pizzuto


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