Purtroppo, la Suprema Corte britannica ha confermato la sentenza di appello favorevole all’estradizione negli Stati Uniti del cofondatore di WikiLeaks Julian Assange. La difesa del giornalista australiano aveva ottenuto di poter fare ricorso contro le decisioni prese dal tribunale. Ma, con tale orientamento, ormai la procedura è agli sgoccioli. La parola fine sarà messa dalla magistrata, che pure aveva dichiarato inizialmente impraticabile la misura chiesta dagli Usa per motivi di salute. La giudice Vanessa Baraister rimetterà il dossier alla dura ministra degli Interni conservatrice Priti Patel. Poco più di una formalità.
Il temuto viaggio di Assange oltreoceano potrebbe essere senza biglietto di ritorno. L’accusa, in base ad una legge sullo spionaggio del 1917, ha chiesto 175 anni di reclusione. Una condanna a morte di fatto attende l’imputato, che ha trascorso sette anni da rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e altri tre nel penitenziario londinese di Belmarsh, la Guantanamo inglese.
Come hanno denunciato Amnesty International, Reporters Sans Frontiers insieme a tanti attivisti civili, si tratta di una vera e propria persecuzione o persino, secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite Nils Melzer, di una tortura. Tanto che gli psichiatri hanno parlato di rischio suicidario.
Forse si proverà a portare la vicenda alla Corte internazionale dei diritti umani, ma il quadro sembra proprio compromesso.
Non è possibile, però, eludere l’incredibile contraddizione con ciò che osserviamo in questo orribile periodo di guerra.
L’informazione è monca, soggetta ad attacchi e repressioni. Dall’inizio della aggressione russa all’Ucraina quattro cronisti e fotoreporter sono stati uccisi e trentacinque feriti: cifre verosimilmente in difetto.
I corrispondenti sono stati in gran parte ritirati, a partire da quelli della Rai. A Mosca chi dissente o scrive qualcosa di poco gradito va in carcere con pene che raggiungono i quindici anni. Internet è limitato e i social sono bloccati. Un preoccupante conformismo pervade le testate, con le debite eccezioni. Che Putin sia l’artefice del conflitto è indubbio, ma il ventre molle dei media sembra riprendere l’antica navigazione con la bussola della Nato.
L’effetto collaterale è il velo steso sulla realtà, che ci arriva con l’esibizione delle immagini (persino bambine e bambini, contro ogni regola deontologica) spesso poco sorrette dal racconto.
Insomma, l’informazione è prevalentemente embedded, al di là del tempo fluviale – il 75% dei titoli dei telegiornali, oltre alla strisciata permanente dei talk- dedicato alle manovre belliche.
Ecco perché la sorte di Assange stride con la normalità delle censure e delle autocensure. WikiLeaks è sul banco dell’accusa proprio per la scelta coraggiosa di rompere ogni omertà, mostrando i crimini perpetrati nelle occupazioni dell’Iraq e dell’Afghanistan dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Sotto la superficie non si deve andare, tuonano i potenti responsabili dei misfatti. Il segreto è una componente cruciale del dominio e la comunicazione è a sovranità limitata nel capitalismo della sorveglianza.
Assange è il capro espiatorio di una vendetta contro chi ha osato varcare la linea d’ombra. La cinica cerimonia è un ammonimento. Stiano attenti, questo è il messaggio, coloro che esigono di essere rispettati nel lavoro difficile di cronisti della verità. E se si muore o si è oltraggiati nel corpo non conta. La guerra è intangibile e guai a chi si oppone.
Non per caso l’accusa a WikiLeaks, malgrado le notizie esplosive siano state utilizzate da importanti quotidiani fino a quando ha fatto comodo, è di spionaggio. Questo è stato l’artificio adoperato per non incorrere nel primo emendamento della Costituzione di Washington, che considera sacrale la libertà di espressione.
Il prossimo 23 di marzo Julian Assange si sposerà con la compagna – avvocata- Stella Morris.
Signor Presidente Mattarella, con la sensibilità che la contraddistingue, interpelli con la sua moral suasion l’omologo Joe Biden affinché conceda la grazia per riparare ad un’ingiustizia. Un bel regalo di nozze.