Mentre la guerra in Ucraina sta focalizzando l’attenzione di tutto il mondo grazie alla grande copertura mediatica, altri conflitti in aree meno “interessanti” continuano la loro “routine”. Si chiamano guerre non convenzionali perché non vedono affrontarsi gli eserciti regolari di due o più Stati, bensì un esercito regolare tenta di contrastare la guerriglia di ribelli o oppositori nei casi meno gravi, oppure di terroristi in quelli più preoccupanti. È quello che accade nel Sahel, quella fascia d’Africa di transizione tra la zona desertica del Sahara, a nord, e quella fertile della savana, a sud: 8.500 chilometri che attraversano in orizzontale il cuore dell’Africa, dal Senegal al Mar Rosso, dodici dei 54 stati del continente. Sei milioni di chilometri quadrati dove vivono circa 100 milioni di persone, di cui almeno 30 milioni sono in uno stato endemico di crisi umanitaria, come se metà dell’Italia soffrisse perennemente la fame.
Il paradosso è che nonostante i paesi che afferiscono a questo territorio posseggano ingenti risorse minerarie (petrolio il Sudan; uranio e stagno il Niger; oro il Mali; ferro la Mauritania; petrolio, oro e uranio il Ciad; manganese, calcare, rame, nichel, argento, il Burkina Faso), essi rimangono molto poveri, quasi tutti agli ultimi posti della classifica dell’Indice di sviluppo umano stilato dalle Nazioni Unite. La loro economia è basata principalmente sull’agricoltura di sussistenza e sulla pastorizia. In questa situazione, ulteriormente degradata a causa dei cambiamenti climatici, che sempre più comportano un’alternanza di periodi di grande siccità a periodi di alluvioni, si è aggiunto un ulteriore elemento: bande più o meno strutturate di miliziani, di matrice criminale o jihādista, che terrorizzano le popolazioni. L’area di maggior rischio è quella cosiddetta delle “tre frontiere”, a cavallo tra Burkina Faso, Niger e Mali, vero e proprio feudo dei terroristi, dove si sono verificati alcuni degli attentati più sanguinosi dell’ultimo decennio. A causa degli attacchi e della conseguente crisi umanitaria, oltre due milioni di persone sono stato sfollate. Mi trovo a Kaya, nel nord del Burkina Faso, il primo approdo per chi scappa dalle città ancora più a nord, Gorom-Gorom, Djibo, Dablo, Kelbo. La gente continua ad arrivare. Viene ammassata allo stadio, in attesa di essere redistribuita nei sei campi profughi sorti attorno alla città, sotto le tende delle Nazioni Unite, e la gestione della Ocades, la Caritas locale.
Ci sono donne, bambini, qualche vecchio, pochi, perché la vita media non va molto oltre i sessant’anni, ma qualcuno c’è, e come gli altri ha camminato per chilometri e chilometri nella brousse, la sterpaglia selvatica, che dà riparo ai profughi, ma anche ai terroristi. La città non riesce a sostenere questo afflusso continuo. Il Comune ha fornito aiuti alimentari, ma non sono sufficienti così come non lo è l’acqua, in un Paese provato dalla siccità cronica. Ecco perché alle organizzazioni umanitarie si chiede di costruire pozzi. Sono già una cinquantina quelli realizzati dalla onlus “Acqua nel Sahel”, fondata da mons. Pier Giorgio Debernardi, vescovo emerito di Pinerolo (To) che, dopo la pensione, ha deciso di stabilirsi missionario in Burkina. Lo sostiene anche il Movimento Shalom, onlus toscana che, come dice il nome, lavora per la pace. Ma alimentare la pace significa educare i giovani, fornire occupazione, supplire ad un sistema sanitario pubblico pressoché inesistente. Sarà poca cosa, ma intanto abbiamo consegnato 24 scatoloni di medicinali arrivati da Pinerolo.
Ma anche gli aiuti umanitari rischiano di non potere nulla se non si trova il modo di fermare gli attacchi terroristici, che dal 2016 con l’assalto all’hotel Splendid e al caffè-ristorante Cappuccino, sono penetrati anche nella capitale Ouagadougou. L’incapacità di risposta del governo legittimo del presidente Roch Marc Christian Kaboré, ha portato in piazza la popolazione. E l’esercito, sempre più scoraggiato perché sotto pagato e male addestrato, nella notte tra il 23 e il 24 gennaio scorsi, ha destituito il presidente. Successivamente, i golpisti, comandati dal colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, hanno formato un governo di transizione che resterà in carica tre anni, con l’obiettivo di traghettare il Paese a nuove elezioni democratiche ma, soprattutto, di rafforzarne la stabilità politica. La qual cosa non sembra per niente semplice visto che in questi due mesi gli attacchi si sono intensificati e, la popolazione, colma di aspettative e speranze subito dopo il golpe, sta già cominciando a mettere in dubbio la reale capacità del governo di transizione di contenere la violenza jihādista.
Romina Gobbo