8 marzo 2022. Il pensiero va alle donne ucraine, a quelle che ho incontrato una settimana fa, al valico di Fernetti. A quelle ancora in fuga coi propri figli. A quelle che sono rimaste a combattere. Il pensiero va a loro che oggi rappresentano, nel dramma dell’attualità, tutte le donne che si trovano a vivere nei troppi teatri di guerra del mondo. Qui le storie che ho raccolto al confine tra Italia e Slovenia.
Lunedì 28 febbraio. Quinto giorno di guerra. Sono le nove di sera e il valico di Fernetti – al confine tra Italia e Slovenia – è sferzato da un vento gelido. In un silenzio surreale, uno dopo l’altro, arrivano i pullman stipati di profughi dall’Ucraina. Sono quasi tutte donne con i loro bambini: mamme, nonne e sorelle che li hanno strappati alla follia della guerra. Di colpo sembra di essere tornati indietro di trent’anni esatti, ai conflitti feroci dei Balcani. Gli occhi attoniti che dai finestrini bucano il buio della notte sono gli stessi di allora, quelli di chi si è messo in salvo lasciandosi però alle spalle una vita intera: il proprio Paese, una casa e gli affetti più cari. Sgranati e dolenti – è bene ricordarlo – sono gli occhi che ci interrogano da ogni teatro di guerra.
Ci avviciniamo a uno dei pullman, l’autista – mentre la polizia di frontiera sta controllando i documenti e registrando gli ingressi – è sceso a fumare una sigaretta. Diretti a Pescara, sono partiti domenica all’alba da Chernivtsi, città in riva al fiume Prut, a 25 chilometri dal confine con la Romania. «Il viaggio è stato difficile – racconta mischiando italiano e inglese –, il Paese è nel caos, le donne e i bambini in fuga sono tantissimi. Appena saremo giunti a destinazione torneremo indietro a prendere altre persone in attesa. È una tragedia». Chiediamo se tra le donne a bordo ce n’è qualcuna che abbia voglia di raccontare. Scende Irma. È stremata, ma – in un italiano perfetto – cerca comunque con fatica le parole per dar forma alla propria odissea.
«Ho portato via da Kiev mia figlia con la sua bambina di appena tre mesi – racconta –, mai ci saremmo aspettati che si arrivasse a questo. Abbiamo lasciato tutto quello che avevamo costruito con sacrifici enormi, ma soprattutto abbiamo dovuto lasciare i nostri familiari».
«Mio marito – racconta con la voce rotta dall’emozione – lavora in Italia, ma per il Natale ortodosso era rientrato per alcune settimane di vacanza, quando ha visto la piega che stava prendendo la situazione è rimasto per combattere, esattamente come mio genero. Mia madre invece è troppo anziana e malata per affrontare un viaggio come questo. Si rende conto cosa vuol dire, da un giorno all’altro avere la vita spezzata e la famiglia divisa in due? Eppure non potevamo fare altro, se fossero fuggiti anche i nostri mariti, chi sarebbe rimasto a difendere il nostro Paese, la nostra terra? Avremmo voluto rimanere anche mia figlia ed io, come molte altre donne su questo autobus, ma abbiamo la responsabilità dei nostri bambini e bambine, hanno tutto il futuro davanti e il diritto di vivere in un luogo dove non cadono le bombe». Per ora quel luogo sarà Foggia, lì abita infatti la sorella di Irma che darà loro una prima accoglienza. Quasi tutte le persone con cui parliamo hanno questa prospettiva, ricongiungersi temporaneamente con familiari o conoscenti che vivono e lavorano in Italia. Nel raccontare Irma si ferma un istante, raccoglie forze, parole e prosegue: «Sono arrabbiata, che colpa abbiamo noi? Siamo un popolo che ne ha passate tante, che lavora sodo per vivere meglio e far crescere il proprio Paese, cosa vuole Putin da noi?».
SSaliamo in corriera e ci si stringe il cuore. I bambini e le bambine sono davvero tanti, molti di loro hanno pochi mesi e sono aggrappati alle proprie mamme. La nipotina di Irma ha la febbre alta, si sta valutando se chiamare un’ambulanza o proseguire. Poco prima di noi è salita una volontaria dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) che ha distribuito beni di prima necessità, anche le caramelle che hanno acceso il sorriso dei bambini. Intanto, gli occhi azzurrissimi di Maria, sei anni, ci seguono curiosi, ci chiede chi siamo. Quando scopre che siamo giornaliste è un po’ delusa dal fatto che non lavoriamo per la televisione, ma ci prega lo stesso di dire che lei e i suoi fratelli vogliono al più presto tornare a casa. È notte fonda e alcune delle donne dormono, sono ferme qui a Fernetti per il controllo dei documenti ormai da due ore. Livia ha poco più di vent’anni e un bimbo di due che la stringe forte: «È spaventato – racconta –, ha sentito le bombe cadere vicino casa, ha visto un palazzo in fiamme, ora non fa che stringermi. Spero che un giorno possa dimenticare». Olga invece di anni ne ha quasi cinquanta, sorride ogni volta che guarda suo figlio: «Essere riuscita a portarlo in salvo – spiega – è una gioia immensa, a volte devo toccarlo per dirmi che è vero, che sta bene e non è stato nemmeno ferito. Poi penso a mio marito e a mio fratello che stanno difendendo la nostra città e allora non riesco a trattenere le lacrime». Stiamo per scendere, ma ci ferma ancora un istante: «Scrivete che vi siamo grati – aggiunge – abbiamo visto che siete scesi in piazza in tutta Italia, non avete idea di quanto ci abbia scaldato il cuore. Non lasciateci soli, continuate ad aiutarci».
Intanto, proprio nella mattinata di lunedì, l’Alto commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha fatto sapere che sono già mezzo milione i profughi ucraini che sono fuggiti dalla guerra, un numero destinato a salire nei prossimi giorni: se non si troverà una soluzione di pace, si stima che a lasciare l’Ucraina potrebbero essere anche sei milioni di persone.
Pubblicato sul numero di mercoledì 2 marzo 2022 del settimanale diocesano di Udine «La Vita Cattolica».