Non era lei sbagliata, come volevano far credere.
Era il mondo, che molto spesso, allora come oggi, andava nel verso sbagliato per persone come lei.
E lei, Renata Fonte, era dura, granitica, ferma nelle sue posizioni chiare. Non chiare per lei, ma trasparenti agli occhi di chiunque.
Ah, quanto fastidio in quella trasparenza. Chi si credeva di essere, così altera, controcorrente, sicura di sé, incorruttibile?
Ma davvero voleva cambiare il mondo, lei da sola? Dove voleva arrivare?
Che poi alla fine, se gli “affari”, certi affari, le puzzavano tanto, poteva anche solo voltare lo sguardo di pochi gradi, non vedere e passare oltre. E invece no, s’incaponiva, s’impuntava, santa donna!
E quindi “Bang! Bang!”. Il rumore sordo di una pistola 38 anni fa davanti all’uscio di casa, contro il chiasso della coscienza dell’assessora ribelle. Così fu uccisa, gli spari al posto delle sue urla. Uno scambio iniquo, perché quelle urla si sentono ancora. Nel vento, tra le fronde degli alberi del belvedere di Portoselvaggio, nelle mani nervose e pregne di vita delle figlie, nei fiumi di parole di chi sente la tensione morale della testimonianza attiva, nello scirocco e nella tramontana che agitano quei luoghi.
Agitati come Renata, in tutto figlia della sua terra.
Avrebbe mai potuto tradire la Madre, una come lei? Mai, a costo della vita.
L’anniversario dell’assassinio Fonte non sia dunque mero ricordo di una pagina di cronaca buia.
Il 31 marzo sia commemorazione della seconda vita di Renata. Quella che non si può toccare, che va oltre le fisicità e la forma, lontano dalle misurazioni pratiche dell’uomo per farsi parola, valori, insegnamento imperituro, agitazione dell’animo, monito pesante che inchioda tutti nessuno escluso, alle sue responsabilità.
È facile, per chiunque, strappare applausi e consensi tanto in un aula consiliare che su un palco o in un pubblico consesso. Ben più difficile è dire e fare la cosa giusta, scomoda, urticante, non tacere. Renata Fonte non è mai stata zitta, ha preferito la verità all’applauso e al consenso. Un’eretica sì, bruciata al rogo delle miserie dell’omertà e della connivenza spicciola di quanti, pur non premendo quel grilletto 38 anni fa, hanno voltato di pochi gradi lo sguardo, per poi piangerla al funerale.
La doppia morale e la vigliaccheria dei complici. Questo è. Perché Renata Fonte, donna vittima di mafia anzi della cultura mafiosa che mina fino alla cancrena la tenuta delle radici della società civile, nel Salento del sole e del mare bello, era già stata ammazzata prima di quel 31 marzo.
Dal silenzio, dall’indifferenza e dall’isolamento.
Prima di isolano, poi t’ammazzano quando sei ormai un morto che cammina. Sono passati tanti anni, assai, da quella sera di colonne in cronaca. Alcuni dei protagonisti principali di quella vicenda non ci sono più, eppure Renata è qui. Le sue urla, la sua agitazione non sono andati persi e chissà quanto imbarazzo suscitano ancora oggi, in molti di noi, in tanti che si affannano a cercare l’abito nuovo per pontificare dai pulpiti delle manifestazioni anti mafia. Perché i princìpi, i valori, l’antimafia, non si raccontano per attrarre su di sé un cono di luce. Si praticano, ogni santo giorno. Accettando il rischio del buio.
E stavolta ricordare Renata Fonte sì, è difficile. Più del solito. Perché vedo lei nei capelli, nelle mani nella sete di sua figlia Viviana. Con lei è nata un’amicizia forte, fatta anche di sofferenze reciproche, di cadute, fragilità, paure. Perché chi lotta ha paura, come tutti. La paura è umana, è la vigliaccheria che è disumana seppur tanto diffusa.
Scegliere la verità, nei giorni travagliati di Renata come oggi, equivale a caricarsi una croce, una lotta quotidiana su una strada irta di incomprensioni e perdite, vestire la corazza bucherellata dei divisivi, e creare conflitti perché non si è disposti a sacrificare sull’altare del compromesso valori imprescindibili.
E vuol dire essere disposti a essere soli. In mezzo a tante persone sole e libere.
Fabiana Pacella. Presidio Articolo21 Puglia