Per vari motivi le giornate musicali del ponente ligure meritano qualche riflessione non improvvisata All’1 e 56 della domenica (oggi), si è conclusa la lunga kermesse sanremese, durata complessivamente cinque giorni e per un totale di circa ventiquattro ore di show, con l’aggiunta di altri device, social e radio. Già, la radio, con la rete due della Rai efficace e brillante e non mera ripetizione, si conferma una scuola straordinaria dei e nei riti dello spettacolo. Se è vero che Fiorello, Jovanotti e lo stesso Amadeus vengono proprio da lì.
Amadeus, che pare correre per la quarta edizione, si è rivelato senza troppo clamore ed eccessi di protagonismi, il sapiente e misurato traghettatore verso un’altra età del Festival. Si sbaglierebbe, infatti, a ripetere con qualche colpevole inerzia le valutazioni di sempre: sul valore e sui limiti di una manifestazione arrivata alla puntata numero 72. Nacque, infatti, nel 1951, quando Elisabetta non era ancora regina del Regno unito e Stalin viveva in un mondo segnato dalla guerra fredda. Senza addentrarsi in perigliose disamine sulle culture di massa e la loro evoluzione (accidenti, di Umberto Eco ne nasce uno ogni tanto), vale la pena di sottolineare la novità.13,3 milioni di spettatori hanno seguito la serata finale, eguagliando la fortunata edizione condotta da Fabio Fazio (con Luciano Pavarotti, Ines Sastre e Teo Teocoli) nel 2000. Il clamoroso 65% di share raggiunto è secondo solo al 70% del 1987 di Pippo Baudo e Carlo Massarini, l’anno in cui entrarono in scena le rilevazioni dell’Auditel. Tuttavia, la quantità reale di spettatori allora fu di quasi 16 milioni. Del resto, la televisione generalista ha perso via via quasi il 30% dell’audience, che riappare così copiosa proprio in eventi speciali come Sanremo o le fasi finali delle competizioni internazionali di calcio. Ciò che colpisce di più, però, è la composizione dei pubblici, con la luce accesa sul 70% di share tra i15 e 24 anni. Simile curva di interesse è certamente l’effetto della crossmedialità della trasmissione, strutturata sulle scenografie tecnologiche del teatro Ariston assistite da un numero elevatissimo di telecamere e da una accurata struttura del suono, e impreziosita dall’utilizzo di smartphone e cellulari eternamente connessi (nel primo giorno quasi sei milioni di interazioni), emittenza radiofonica a parte. Ma è la miscela tra il piccolo grande media, Spotify, podcast e video ad essere deflagrata. Così la parte del leone, nel costruire voci e personaggi, è svolta dai talent: da X Factor, ai programmi di Maria De Filippi e simili. Insomma, le vie di Sanremo sono meno finite rispetto a stagioni mediali precedenti e spaziano dai luoghi fisici alla virtualità. Solo i tenaci (bravi) testimoni di un tempo precedente – da Orietta Berti, a Iva Zanicchi, a Massimo Ranieri e Gianni Morandi- ci ammoniscono che l’espressione artistica, quando è bella e felice- non muore mai. Anzi. La serata (la migliore) delle cover andrebbe studiata nei corsi di comunicazioni per il tratto originale e non ripetitivo della rilettura dei testi, con la moltiplicazione creativa frutto della fusione generazionale. Per vari motivi, dunque, le giornate musicali del ponente ligure meritano qualche riflessione non improvvisata. Non tanto e non solo per i contenuti manifesti, a partire dalla qualità delle canzoni – alta o meno non compete qui dire-; quanto per l’universo produttivo e di consumo. Un’enorme macchina si mette in moto, rispondendo a una domanda che si coglie nel profondo della società e la quale, a sua volta, ci fa capire venti e tendenze. Prima di ogni giudizio critico o estetico, è necessario chiederci cosa sia realmente quella che a buon diritto si colloca nel pantheon delle grandi cerimonie dei media, mirabilmente disegnate dall’omonimo testo (1992) dei sociologi Daniel Dayan e Elihu Katz. Le cerimonie, suscitando emozioni non usuali nel loro svolgersi rispetto al consueto rituale televisivo, possono individuare sia sintomi di conservazioni sia tracce di cambiamento. Sulle ospiti conduttrici accanto ad Amadeus si è scritto molto. Rimane il fatto che Lorena Cesarini e Drusilla Foer hanno inferto piccoli ma significativi schiaffi al pensiero mediano e piccolo borghese. Un approccio lontano dall’imperante omologazione culturale. Se Fiorello, Ornella Muti o Sabrina Ferilli appartengono ormai alla riserva sicura della repubblica del divismo, un discorso specifico meriterebbe Checco Zalone. Forse, la forza dell’attor comico campione di incassi nelle (rimpiante) sale cinematografiche sta proprio nell’ambivalenza: è lecito parlarne bene o male con argomenti quasi pari. L’ambivalenza è una virtù, non necessariamente un difetto nell’epoca di transizione che viviamo.nali) è un affare. 40 milioni di introiti da sponsor e pubblicità si riversano sull’azienda. Non è poco, ma non è neppure strano. Simili livelli di contatti sono davvero eccezionali. Tuttavia, è stato notato e scritto, stride con l’aria serena della festa il foglio di via comminato nella serata dello scorso giovedì ad esponenti di Greenpeace, rei di aver protestato contro il ricorso strumentale da parte del mega sponsor Eni al cosiddetto greenwashing: cambiare in apparenza per non cambiare niente. Non basta ricorrere alla plenitude, parola magica e illusoria, peraltro presa fuori contesto da un libro di un chissà se consapevole guru, Jay David Bolter. Chiedere scusa agli ambientalisti, no?
(Foto AdnKronos)