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Monica Vitti, addio a un’attrice che appartiene alla storia del cinema

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Monica Vitti il 3 novembre 2021 aveva compiuto 90 anni. Da più di venti era chiusa nella sua casa romana, a due passi da piazza del Popolo, sofferente di una malattia degenerativa, l’Alzeihmer, che l’aveva isolata dal mondo. Aveva accanto il marito, il regista Roberto Russo, sposato dopo 27 anni di fidanzamento (come accreditano le cronache mondane), che l’assisteva con l’aiuto di una badante e che da due decenni la proteggeva dalla malsana curiosità dei paparazzi: non si sa cosa avrebbero pagato per avere una foto dell’agonia dell’attrice. Quando si era sparsa la voce che era stata ricoverata in una clinica svizzera, Russo si era affrettato a smentire: “Ma quale Svizzera, sta a casa sua!”. Ma non la faceva vedere a nessuno.

Amaro destino quello di Monica Vitti: lei che era stata un’attrice a tutto tondo, ma soprattutto ironica, che nella vita aveva sempre trovato spunti per ridere, si trovava a vivere da anni nel buio di una mente che non le apparteneva più. Di lei ci restano i suoi film, alcuni significativamente impegnati, altri deliberatamente divertenti che ci rimandano il suo sorriso talvolta mesto, altre volte scanzonato, di attrice nata drammatica e diventata comica. A scoprirla, ogni volta, fu l’intuito di due grandi del cinema italiano che ebbero la fortuna di guidarla sul set: Michelangelo Antonioni che la volle protagonista nei suoi film della cosiddetta tetralogia dell’incomunicabilità (La notte, L’avventura, L’eclisse e Deserto rosso, girati uno all’anno nei primi Sessanta) e Mario Monicelli che nel ’67 la riabilitò come attrice brillante ne La ragazza con la pistola.

Da allora è passato molto tempo, della Vitti si leggeva ormai solo dei suoi antichi amori (Antonioni con il quale andò a vivere in un attico con vista sul Tevere di Ponte Milvio), con il fotografo Carlo di Palma che contribuì con la magia dell’obiettivo a fare del suo viso da “capra semitica” (come, parafrasando Umberto Saba, ebbe a definirlo un critico particolarmente caustico nella sua rubrica televisiva di cinema che in quegli anni andava per la maggiore) in un volto intrigante da autentica diva del cinema, e per ultimo Roberto Russo: dopo due film in cui l’aveva diretta negli anni Ottanta, a lui era toccato in sorte di vivere una terribile esperienza, ma anche un’irripetibile occasione di grande solidarietà umana, restandole accanto in quest’ultimo squarcio di vita.

Fin dagli esordi sui palcoscenici dei piccoli teatri di cantina, Maria Luisa Ceciarelli, così fa all’anagrafe di Roma, fu consigliata a trovarsi un nome d’arte: Monica le era sempre piaciuto, Vitti lo ottenne troncando il cognome della madre, la bolognese Adele Vittiglia, dalla quale aveva preso anche molto del suo spirito allegro. E da allora è stato un successo dopo l‘altro, con qualificate occasioni televisive, il doppiaggio con la sua voce roca che in un primo tempo non piaceva ai registi, anche molto teatro. Fino al giorno in cui, inesorabile, il sipario è calato sull’attrice, lasciando alla donna un amaro destino di silenziosa sopravvivenza, fino ad oggi in cui si consegna alla storia del cinema.


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