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McLuhan salito al Quirinale

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Nell’impegnativo indirizzo programmatico pronunciato lo scorso 3 febbraio davanti alle camere riunite dal rieletto Presidente Sergio Mattarella, dignità è stata la parola chiave. Si è già ampiamente rilevato l’eccesso di zelo e il debordante senso di colpa che i 54 applausi esprimevano. Se a teatro troppi battiti delle mani  reiterati e spesso fuori posto stridono con la drammaturgia, così in un’aula istituzionale hanno un sapore di artificio. Per di più, di fronte ad una figura misurata e volta a sorvegliare passioni e sentimenti, certamente più forti di quanto lo siano nella crescente spettacolarità della politica.

Risulta utile sottolineare, di quei composti 38 minuti di discorso, i punti che hanno toccato i temi della comunicazione. Del resto, la credibilità della fonte emittente conferisce valore al messaggio. E Mattarella ha in materia una particolare credibilità.

Non va dimenticato quell’afoso 6 agosto del 1990, quando l’allora ministro della Pubblica istruzione si dimise insieme ad altri quattro colleghi della sinistra democristiana dal governo presieduto da Giulio Andreotti. Il motivo fu ben preciso: veniva approvata a maggioranza e sotto lo sguardo vigile di Silvio Berlusconi, che aleggiava in spirito sopra l’aula del senato, la legge n.223 (chiamata Mammì dal cognome del titolare del dicastero competente). Con quel testo si chiudeva un conflitto iniziato nel 1976 con la parziale liberalizzazione dell’etere, prevista solo in ambito locale. Seguirono i decreti voluti da Bettino Craxi a fine del 1984, che bloccarono i pretori coraggiosi intenzionati a far rispettare il limite locale delle trasmissioni, aggirato scaltramente dalla Fininvest con le cassette dei programmi diffuse con impercettibili stacchi temporali tra un’emittente e l’altra. Tuttavia, il quadro rimaneva incerto e serviva la definitiva legittimazione dell’impero dell’azienda di Cologno monzese.

Vi fu opposizione parlamentare, ma senza storia. L’accordo del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) era chiuso e il manovratore non andava disturbato. Forse, gli stessi autori del misfatto non si aspettavano che ci fosse qualcuno – nella compagine di governo – che tenesse la schiena dritta.

Ecco perché i richiami dell’attuale Presidente sono credibili.

Dignità è garantire e assicurare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente, ha sottolineato riprendendo l’essenza dell’articolo 21 della Costituzione. Senza l’esercizio di tale presupposto della vita democratica, non è possibile esercitare in pieno le prerogative della cittadinanza. Se non si sa, non si è in grado di partecipare.

Tutto ciò si complica ulteriormente nell’età della rete e della velocità delle tecniche in via di transito verso modalità sconfinanti nel post-umano: incombe la cappa dell’intelligenza artificiale e del predominio degli algoritmi.

Mattarella ha evocato la necessità di superare il digital devide, vale a dire il rischio di assistere inerti alla forzosa suddivisione della società in base alle opportunità (finanziarie e culturali) di connettersi ai flussi moltiplicati dalla banda larga e ultralarga. Il pericolo di ampliare le periferie esistenziali (cit.) è enorme.

Tuttavia, il riferimento forse meno prevedibile e invece attualismo è quello ai poteri economici sovranazionali. Questi ultimi tendono ad imporsi, aggirando il processo democratico. In poche parole il Presidente è entrato nel cuore della questione e ha alluso all’abnormità dei ruoli assunti da meta-nazioni come gli Over The Top (da Googe, a Facebook, a Google, ad Amazon, a Microsoft, ad Alibaba).

Se dall’Europa viene qualche segno di inversione di tendenza (ad esempio, con la proposta di Digital Services Act, di cui ha scritto Teresa Numerico su il manifesto di domenica scorsa, che limita un po’ le piattaforme), ci si attende che pure in Italia qualcosa si smuova.

Insomma, dopo gli applausi si facciano opere di bene: sulla riappropriazione dei dati personali in mano alle Big Tech, su chi gestirà il Cloud della pubblica amministrazione, sullo stop alle querele temerarie, sul precariato e l’equo compenso. Per applaudire, poi, sul serio.


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