Unico titolo italiano al Festival di Berlino 2022 e vincitore del premio FIPRESCI, Leonora addio, ultimo lavoro di Paolo Taviani, giunge in sala in questi giorni e si porge come testamento spirituale di un uomo attento alle istanze politiche e alle trasformazioni sociali che non ha mai cessato di confrontarsi con la grande letteratura e di nutrirsene ma, questa volta, ha dovuto farlo con lo sguardo orfano di quello simbiotico del fratello Vittorio, a cui il film è dedicato.
Il ritorno a Pirandello, dopo Kaos e Tu ridi, denota una scelta cosciente e un abbandono fiducioso a quello che sembra essere divenuto un nume tutelare del proprio percorso artistico e probabilmente esistenziale. Immagini d’epoca mostrano la consegna del Nobel nel ’34 e raccontano la percezione dell’amaro di cui è stata impregnata siffatta gloria. Poi, in un bianco e nero voluto come raffinata scelta estetica e valorizzato dalla bella fotografia di Paolo Carnera e Simone Zampagni che ne accentua i contrasti, Taviani racconta la grottesca vicenda del viaggio da Roma ad Agrigento delle ceneri di Pirandello e ad essa aggiunge, tramite un rapido passaggio in dissolvenza al colore, il libero adattamento della novella Il chiodo, scritta poco prima della morte dell’Autore, in cui è narrata l’atroce vicenda di un ragazzo che uccide una bambina (Pirandello si era ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Brooklyn) senza alcun motivo, spinto dall’ineluttabilità di un destino che deve compiersi. Taviani però non rinuncia ad una delle sue cifre stilistiche e costruisce invece per quell’assassino adolescente un vissuto di emigrazione dettata dal bisogno, riproponendo in tal modo tematiche sociali care e frequentate e regalando frammenti di cupa bellezza.
Il film avrebbe potuto concludersi con la realizzazione delle ultime volontà di Pirandello, il ritorno delle sue ceneri alla campagna natia, e l’aggiunta della novella potrebbe ragionevolmente apparire incongruente e forzata, ma è una sensazione che svanisce in fretta, basta ripercorrere a ritroso le immagini e cogliere le innumerevoli corrispondenze formali e la compattezza del messaggio, basta guardare ai continui contrappunti visivi e tematici all’insegna del doppio pirandelliano che creano un dialogo ininterrotto tra le varie tessere, sproporzionate e difformi, di un mosaico libero da convenzioni filmiche e da necessità diegetiche.
L’onnipotenza capricciosa del tempo, che rapido attraversa i giorni depredandoli delle quotidiane conquiste o fissandone poche ore indelebili nella memoria, si impone subito nella scena onirica in cui le assorte e desolate considerazioni del protagonista/narratore della novella Una giornata divengono quelle dell’Autore malato e allettato in una stanza/scatola di un bianco abbacinante nella quale gli arredi e la porta sembrano sospesi, come sospeso dev’essere il tempo della morte nei brevi istanti in cui se ne respira la presenza e ci si interroga su come sia possibile morire se appena ieri si era ancora giovani.
Io già vecchio? Così subito? E com’è possibile? Già finita la mia vita? Quale amarezza, quale stupore, quale percezione di ingiustizia in queste parole che dal personaggio scivolano all’Autore affinché diventino quelle del regista novantenne in un gioco di specchi che riguarda ogni essere umano.
E torna ancora il tempo, sovrano assoluto, a ricucire con andamento circolare le ultime scene del film in cui si mostra, in rapidissima successione, l’invecchiamento del ragazzo che visita ogni anno, a mantenimento di una promessa, la tomba della piccola Betty dai capellacci rossi, trafitta dal chiodo caduto “apposta” da un carro. I riferimenti all’opera di Pirandello sono così insistiti e fitti che sarebbe sterile elencarli tutti, essi sono spesso affidati a semplici inquadrature, come quelle contenenti il gioco della carriola (che torna due volte a siglare il tempo della partenza della famiglia emigrante e quello della perdizione del ragazzo) che suggeriscono l’intero universo filosofico contenuto nella novella La carriola, o disseminati in maniera bizzarra, come nel caso del falso indizio legato al titolo del film, quel Leonora addio che rimanda ad una novella del tutto assente sotto il profilo narrativo e visivo, ma riconducibile alla funzione salvifica (e foriera di morte) del teatro e del canto. La vicenda stessa della sepoltura dello scrittore si trasforma in ottima occasione narrativa che Taviani compone pirandellianamente con tocchi grotteschi e umoristici. Ne sono esempi lampanti le sequenze della processione per le vie della città con la piccola bara che contiene le ceneri di un gigante o della partita di “Tressette col morto” giocata in treno.
Ma il regista non dimentica di omaggiare anche film particolarmente amati (Paisà, L’Avventura, Estate Violenta, Il bandito, L’Amore Difficile, Il sole sorge ancora, l’autocitazione di Kaos), ne prende in prestito alcuni spezzoni e li innesta nel proprio percorso narrativo per descrivere gli eventi che coprirono il tragico decennio, tra la morte e la riesumazione delle ceneri dello scrittore (1936/46), in cui la guerra e la Resistenza sconvolsero il Paese. Prendono quindi avvio le peregrinazioni del delegato del Comune di Agrigento (un persuasivo Fabrizio Ferracane dallo sguardo dolce e determinato) con le ceneri racchiuse in una cassetta: dapprima il rifiuto del superstizioso pilota americano di volare con un morto a bordo e poi il lungo viaggio in treno al quale Taviani imprime un andamento di pura poesia. Un’umanità da poco uscita dalla guerra, con i volti segnati dalla fame e dalla povertà, appena sbozzata come in certe pagine di Elio Vittorini, si mostra timida e speranzosa in un viaggio di ritorno alle proprie radici o di nuovi inizi, e persino nel ballo non ci sono sorrisi e allegria ma la semplice presenza di una vita che vuole riappropriarsi del suo monotono e tranquillizzate passo.
Che le opere di Pirandello siano state così tanto frequentate dal grande schermo è un fenomeno curioso se consideriamo che il rapporto tra lo scrittore e il cinema, com’è noto, fu piuttosto complesso e contraddittorio. Già il romanzo Si gira del 1916, poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, aveva esplicitato il curioso fascino e il forte turbamento che il nuovo mezzo espressivo esercitava sullo scrittore che talvolta collaborava persino alle sceneggiature altrui o consentiva l’adattamento per lo schermo, non senza perplessità e malcontenti, di sue novelle o romanzi. Si arrivò al paradosso nel 1930, quando dalla novella In silenzio venne liberamente tratto il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore diretto da Gennaro Righelli. Pirandello si era pubblicamente esposto in diverse occasioni con pareri trancianti sul sonoro e il suo ideale di film era stato da lui racchiuso nel concetto di “cinemelografia”, cioè una pellicola che avrebbe dovuto puntare sulla vista e sull’udito in un’unica esperienza immersiva fatta di immagini e musica.
Vero è che poi tornò ancora sull’argomento esprimendosi in maniera meno rigida e più conciliante, ma è probabile che Paolo Taviani, nel tornare all’amato autore, abbia voluto avvicinarsi a quella visione puramente sensoriale, costruendo un film in cui la sceneggiatura è ridotta a ordito essenziale fatto di parole dense e ricche di impliciti, mentre il fluire lento delle immagini si compenetra delle musiche di Nicola Piovani con tenace adesione. Persino nella scena stilisticamente stridente della lite tra le due bambine, anch’essa avvenuta “apposta” come la caduta del chiodo, le parole scompaiono per lasciare il posto ad uno scontro feroce ed epico, con inquadrature fisse, oltre le quali debordano i corpi rabbiosi, o con campi lunghi che sembrano accogliere tori schiumanti nell’arena o gladiatori in attesa che l’imperatore (nel caso specifico il ragazzo assassino interpretato efficacemente da Matteo Pittiruti) ne determini la sorte.
Taviani non sembra cercare in questo film unanimi consensi, chissà quanto poco possa importargli, si limita a consegnare le proprie considerazioni sul Tempo e sulla Morte con un disordine apparente dal quale affiorano rapide intuizioni e limpide visioni. Ha accanto a sé il ricordo del fratello e il genio di un classico. Possono bastare.
Leonora addio
regia: Paolo Taviani
cast: Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker, Claudio Bigagli, Roberto Herlitzka, Robert Steiner, Luca Ghillino, Simone Ciampi, Biagio Barone, Giuseppe Lo Piccolo, Enrico Maria Modugno, Federico Tocci, Jessica Piccolo Valerani, Giuseppe Spata
sceneggiatura: Paolo Taviani
fotografia: Paolo Carnera, Simone Zampagni
montaggio: Roberto Perpignani
scenografia: Emita Frigato
costumi: Lina Nerli Taviani
musica: Nicola Piovani
Le ceneri di Pirandello. In sala ‘Leonora addio’ di Paolo Taviani