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Eutanasia. Al di la’ del no della corte costituzionale, il paese è maturo. Solo la classe politica sembra non accorgersene

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Articolo 75 della Costituzione, paragrafo secondo: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.

Se nella Costituzione italiana c’è una cosa bella è che è scritta in un italiano limpido e chiaro. Nella loro saggezza i Padri Costituenti hanno avuto cura di redigere la Legge di tutte le Leggi in modo che sia comprensibile al più fine giurista al pari dell’illetterato che dispone della sola licenza elementare. Un buon esempio che dovrebbero seguire i legislatori dell’oggi e del domani: farsi almeno assistere dagli ottimi consulenti giuridici di cui sono dotati Camera e Senato; e chiedere l’aiuto dell’Accademia della Crusca.

Inciso a parte, i termini che “vietano” l’indizione dei referendum sono chiari, inequivocabili. Sempre l’articolo 75 stabilisce che “la Corte Costituzionale si pronuncia sull’ammissibilità del referendum”.

Non da ora la Corte Costituzionale, sentenza dopo sentenza, ha redatto una “giurisprudenza”, e fissato “paletti”; non sono contemplati nel limpido articolo 75 della Costituzione; sono piuttosto il frutto “dell’interpretazione” del sistema costituzionale.

Non da ora la Corte Costituzionale ha ritenuto di dilatare il suo potere, e questo è stato accettato con relativa tranquillità, da eminenti giuristi e dal mondo politico. Piaccia o no, i “confini”  rispetto a quanto previsto dall’articolo. 75 della Costituzione si sono allargati. Non si limitano a valutare se il quesito referendario riguarda leggi tributarie e di bilancio, amnistia e indulto,  autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Non da ora la Corte Costituzionale valuta, soppesa, “sceglie”. Come nel caso del referendum proposito dall’Associazione Luca Coscioni, e sottoscritto da oltre un milione di elettori. La Corte Costituzionale, forte di precedenti consolidati, si è sentita in dovere (e potere) di valutare e soppesare quali valori privilegiare anche a scapito di altri; nella fattispecie la Corte Costituzionale ha scelto di tutelare il diritto alla vita anche per/contro chi ha scelto di morire; si è sentita in dovere (e potere) di tutelare con priorità diritti e valori costituzionali differenti da quelli indicati dall’art. 75.

Come si vede, la sentenza sul quesito proposito dall’Associazione Luca Coscioni va ben al di là del quesito specifico. Pone evidenti problemi e questioni di carattere generale, che riguardano la Costituzione scritta e quella “praticata”. Pochi sembrano rendersene conto.

Ora il caso specifico: una sentenza discutibile come tutte le sentenze: come s’usa dire, vanno rispettate; ma perbacco se si possono e si devono discutere; e nel caso anche contestare. Per un tema delicato come questo, occorre tuttavia pesare le parole. Al di là delle opinioni, occorre prudenza e cautela. Da giorni, prima che la sentenza venisse pronunciata, giuristi di vario orientamento avvertivano che il quesito era alta la probabilità che venisse bocciato: al di là del merito, per come era stato formulato.

Cavilli causidici? In attesa di conoscere le motivazioni, una cosa comunque è certa: i tempi sono maturi. Da tempo. Solo la classe politica sembra non rendersene conto (non tutta, certo, ci sono le debite eccezioni; ma in buona parte sì). Sarà perché è da sempre timorosa di pregiudicare faticosi e tutto sommato fragili equilibri di potere; sarà per malintesa convenienza: non si vuole rischiare di mettere in discussione alleanze con poteri reali che sotto la scorza di dogmatica intransigenza rivelano, quando “conviene”, uno stupefacente frullato di cinica, spregiudicata, flessibilità. Fatto è che l’eutanasia in Italia, per tanti più che un angoscioso interrogativo come è giusto che sia, è un indiscutibile  tabù. La parola stessa: vieta, vietata. Come un tempo, quando in TV “membro” era parola impronunciabile; e anche cancro: si ripiegava sul più tenue “male incurabile”.

Eutanasia: chi ha alle spalle studi classici sa che deriva dal greco: “bene”, “buona” morte. Lasciamolo perdere il “buona”, che la morte non può essere “buona”. Misericordiosa, semmai. Nel senso che può accadere, a un certo punto, che la vita si risolva in un qualcosa di insopportabile, per indicibile sofferenza fisica o psichica; e l’unica via d’uscita si risolve appunto nell’andarsene, l’esser lasciati liberi di potersene andare; e chiunque sa cosa si cerca di dire; perché ognuno di noi ha certamente avuto il dolore di vivere simili situazioni, con persone care che ti invocano quell’estrema forma di “liberazione”.

Nella migliore forma di Repubblica, i malati incurabili sono assistiti nel miglior modo possibile. Ma se il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente continue sofferenze allora sacerdoti e magistrati, visto che il malato è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri, gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a morire liberandosi lui stesso da quella vita amara ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri…sarebbe un atto religioso e santo…”. E’ un brano de “L’Utopia”: il viaggio di Raffaele Itlodeo in una fittizia isola-regno abitata da una società ideale, immaginato da Tommaso Moro; badate: siamo nel 1516; Moro nel 1935 viene proclamato santo da papa Pio XI; Moro è nientemeno che il santo patrono dei politici.

I tempi sono maturi, si possono fare tanti esempi: in televisione viene tramesso con una certa frequenza un film di John Ford del 1948: tre banditi fuggono nel deserto; uno è allo stremo per la fatica e le ferite, chiede lo si aiuti a morire. Un pietoso John Wayne lascia accanto all’amico una rivoltella con un solo colpo, e si allontana. Poi, si sente l’eco di uno sparo. L’equivalente di una pillola di cianuro in una clinica svizzera, no? Nessuno mai ha levato la sua voce, contro quel film. Anni dopo un fumetto, il popolare “Tex”. Un amico di Tex, ferito allo stomaco, non ha scampo; chiede di accorciare le sue sofferenze. Tex è angosciato, non vuole farlo, ma capisce che deve, estremo gesto di amicizia. Il fumetto poi ricorre a un artificio: Tex sta per premere il grilletto, prima dello sparo, l’amico muore di suo. Il “delitto” non si compie, ma è per un attimo; una volta lo chiesi a Sergio Bonelli: reazioni? “Nessuna”. Nessuna reazione neppure quando si trasmette “I quattro dell’oca selvaggia” di Andrew McLaglen; in quel film, a un certo punto il colonnello Allen Faulkner (Richard Burton), uccide, alcuni suoi uomini, compreso il suo fraterno amico Rafer Janders (Richard Harris), per evitare loro intollerabili sofferenze e torture da parte dei nemici. Anche in questo caso, nessuna protesta.

Sono esempi (tanti altri se ne potrebbero fare), tratti dalla “letteratura” popolare (cinema,, fumetto) che testimoniano come le questioni relative al fine vita siano “mature”; di come atteggiamento maturo sia quello di discuterle, affrontarle, cercando le possibili soluzioni, per “governare” un fenomeno che c’è, che nega solo chi decide di mettersi spesse fette di salame sugli occhi.

E’ il 1984, quando il radical-socialista Loris Fortuna deposita a Montecitorio una proposta di legge sulla dignità del malato e la disciplina dell’eutanasia passiva. Mai neppure discusso. Chiuso in un cassetto, dimenticato lì. Chiusi in un cassetti, dimenticati lì, anche i successivi progetti di legge. Per anni i radicali e pochi altri sono stati lasciati soli ad agitare il tema. Il ceto politico, salvo eccezioni, quando si tratta di conquiste di diritti civili si convince sempre “dopo” che i tempi sono maturi; “ritardi” che dovrebbero far riflettere sulla capacità di essere in sintonia con quel popolo che vogliono governare. Pensate: nella passata legislatura si disse NO anche all’istituzione di una semplice commissione parlamentare con il compito di radiografare le dimensioni del fenomeno eutanasia clandestina negli ospedali e nelle cliniche; si disse NO perfino questo banalissimo dato di conoscenza. Non si doveva sapere, non se ne doveva parlare, non ci si doveva confrontare e dibattere.

Da ultimo, ma non ultimo, l’informazione. I giornalisti si occupano di tante sciocchezze, si va appresso all’inarcar di ciglio di quel politico; delle scempiaggini di guitti e saltimbanchi; pagine e pagine ma poco nulla su questi temi, che volenti o nolenti interessano tutti noi. Tutto ciò non ha nulla di civile e di democratico.


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