Calda accoglienza allo Stabile di Catania per questa fedele edizione, firmata da Gabriele Russo, dello spettacolo teatrale scritto e interpretato nel 1980 dall’appena 24enne Annibale Ruccello “Le cinque rose di Jennifer”, che continua a scuotere e soggiogare sia per l’incisività di un testo dall’ironia graffiante, corda tesa tra parossismi di esistenze scosse dalla passione e dalla violenza omofobica, sia per l’interpretazione della protagonista, Premio Maschera del Teatro Italiano, affidata a un formidabile Daniele Russo, affiancato dall’incisivo Sergio Del Prete.
La scena si apre su un interno napoletano vagamente kitsch nella bella scenografia di Lucia Imperato, tra boudoir e arredi rosa antico ammassati al centro del nulla, insistendo sulla vana pretesa del lusso di uno squallido monovano in un quartiere suburbano degradato anni ’70. Un uomo si aggira tra gli arredi, affiancato da una figura misteriosa che come un’ombra lo segue, muovendosi incessantemente sul profilo esterno dello spazio. L’uomo racconta di sé mentre indossa in sequenza, uno alla volta, all’inseguimento di una scomoda femminilità, quasi a svelarla a poco a poco, indumenti pittorescamente donneschi, tra lustrini e volants da avanspettacolo. Un grottesco apparato di strumenti di seduzione suggella la sacrale vestizione. E’ Jennifer, in trepidante attesa da tre mesi di una telefonata di Franco, il suo amore, che è andato a Genova per lavoro. Dice che vuole sposarla. Jennifer è un travestito. Sulle note di famose canzoni e famose cantanti alla radio si consuma il tempo della sua romantica, spasmodica, forse inutile attesa, mentre il suo telefono, per un misterioso disguido, intercetta tutte le telefonate del quartiere.
Ogni tanto il notiziario sciorina aggiornamenti su un misterioso serial killer che uccide i travestiti, lasciando addosso alle vittime cinque rose scarlatte, ma il nostro romanticone non sembra farci caso e sfoggia incessantemente panni osé e vertiginosi tacchi a spillo, esibendo un’apparente indifferenza. Ad un tratto nello squallido monolocale di Jennifer l’ombra di Jennifer prende l’identità di “Anna”, un travestito del quartiere che giunge all’improvviso; ha messo un annuncio sul giornale e aspetta una telefonata che è sicuro arriverà nel telefono di Jennifer, che si mostra ospitale e a tratti brusca fino alla scortesia. Esilarante e toccante il colloquio delle due, davanti alla classica tazza di caffè, intente a inventare la loro vita immaginaria di donne alle prese con il parto, la routine mestruale, i figli. L’azione si concentrerà d’ora in poi sui due personaggi in scena, in un‘escalation di alternanze tra l’apparente gioiosità e la mimica di un dolore senza parole evocativo del grido di Munch, sino al finale d’opera.
Amore e morte si intrecciano così fin dal primo momento, dando vita ad un’attesa duplice, cifra della pièce, volta a generare in progress l’inevitabile suspense di una tragedia annunciata aperta a spazi di umorismo amaro, in un saporito napoletano/italiano dove le parolacce, condite da una gestualità sovrabbondante consegnano le due reiette alla purezza corrotta di un mondo degradato. Assistiamo sedotti e coinvolti a uno spettacolo di emarginazione fuori misura che si misura con la sordida vita di chi negato nega. L’accurata regia è riuscita a coniugare apparati coesi, dalla seduttiva scenografia a un uso sapiente delle luci, a una variegata duttilità dei costumi, a un’interpretazione di grande spessore.
L’ambiguità del personaggio, resa dall’alter ego inquietante del Pierrot in rosa e nero di Sergio Del Prete, trasuda solitudine e malinconia, inalberando una femminilità sovrabbondante, mentre le voci di famose cantanti, da Milva a Patty Pravo, a Ornella Vanoni, invadono la scena accompagnando l’angosciata, ossessiva vestizione/svestizione di Jennifer invasata, smoderatamente truccata, in un mix sospeso tra i divismi del cinema muto e della canzonetta e il fosco destino dei “Pagliacci” di Leoncavallo, ormai consegnata a un rito che l’assolve per sempre dal dramma dell’attesa. Figura sfigurata dal trucco a strati, sbavato e disciolto, questa Jennifer di Daniele Russo, soubrette e prostituta, innamorata delusa, inno alla disperata solitudine, grondante umanità ferita, si spoglia e si veste incessantemente, in cerca del suo dramma annunciato, inesorabilmente sprofondata in una voragine tenebrosa, trascinando anima e corpo lungo una speranza d’amore, tra una radio e un telefono, tipici e unici strumenti di comunicazione della drammaturgia di Ruccello, fino al tragico epilogo. Epica e scurrile, appassionata e cruda, eroina di una tragedia anni ’70, questa disperatamente donna (perché Jennifer è donna, più donna di qualsiasi donna) muore d’amore, ossia per mancanza d’amore, impugnando cinque rose, estremo omaggio alla sua femminilità. Ruccello in questa originale e innovativa forma di teatro mirabilmente condensatosi è fatto testimone del malessere di un sistema sociale disumano, ipocrita e distruttivo. Forte di questa eredità respirata nei ghetti napoletani, l’artista, purtroppo precocemente e tragicamente scomparso appena trentenne, a distanza di cinque anni, come le cinque rose, da questo spettacolo, ha creato un’icona che suona quasi profezia, che sfida il tempo e risuona come un grido lacerante nella notte.
LE CINQUE ROSE DI JENNIFER
di Annibale Ruccello
regia Gabriele Russo
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
Scenografia Lucia Imperato
Costumi Chiara Aversano
Luci Salvatore Palladino
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Al Teatro Verga di Catania fino a Domenica 13 Febbraio