“Dopo la fine delle esercitazioni in Bielorussia, tutti i militari russi lasceranno il Paese” così dichiarava all’agenzia Ria Novosti, il 16 febbraio scorso, il ministro degli Esteri bielorusso Vladimir Makei.
Ma così non è stato. Dovevano finire il 20 febbraio. Invece continuerà.
Dall’inizio della crisi in Ucraina – e con l’attenzione concentrata in quel territorio – la Russia, approfittandone, ha spostato un grosso contingente di forze armate e di armi in Bielorussia. Il presidente bielorusso Lukashenka ne ha incoraggiato la presenza sia come deterrente per possibili rivolte interne e sia come protezione da “ingerenze occidentali”. Ma è una presenza che la Nato considera pericolosa per la minaccia di installazione di missili russi in quel territorio. Dove già sono stati effettuati alcuni test missilistici, seppur annunciati come esercizi di deterrenza nucleare.
La Bielorussia è strategica. È a soli 700 Km circa dalla Germania e confina con Polonia, Lituania, Lettonia (paesi Nato), Ucraina (che vorrebbe entrare nella Nato) e Russia. La lingua ufficiale è il bielorusso, ma si parla anche il russo. È una repubblica presidenziale ed è l’unico paese europeo in cui vige ancora la pena di morte.
Quando nel 2014 la Russia ha annesso la Crimea, Lukashenka si astenne dal riconoscerla. Sembrava infatti essere più vicino al presidente Ucraino filoeuropeo Petro Poroshenko. E infatti partecipò alla sua cerimonia di insediamento.
Oggi invece riconosce la Crimea come russa, ha soppresso violentemente le proteste nel suo paese ed è stretto alleato di Putin.
La protezione russa del suo regime, ha spinto Lukashenka ad avviare un programma di cooperazione tecnico-militare fino al 2025 con Mosca. Di fatto una presenza militare russa che ha un risvolto psicologico di possibile occupazione.
Inoltre in un momento già di grande tensione, con le sue truppe in Bielorussia la Russia vuole creare un’ulteriore pressione sull’Ucraina. La quale deve guardarsi anche da quel confine, oltre a quello del Donbass e a quello russo. Senza dimenticare quello della Crimea, con la forte presenza delle unità navali di Putin nel Mar Nero e nel Mar d’Azov.
Se ne parla poco ma c’è un altro confine pericoloso: quello moldavo.
Confine di un paese che, dalla sua indipendenza, è rimasto “schiacciato” tra Romania e Ucraina senza sbocchi verso il mare. Con l’ingresso della Romania nell’Ue nel 2007 (ma anche nella Nato nel 2004) in Moldavia sono sorti movimenti e partiti favorevoli a un avvicinamento con l’occidente. Ma non nella regione della Transnistria, dove vive una popolazione russofona. È una regione di fatto autonoma anche se non riconosciuta internazionalmente e dalla stessa Moldavia. Ma esiste una moneta separata dal Lev moldavo ed un governo autonomo. Governo filorusso, tanto che nel 2014, in seguito alla secessione della Crimea dall’Ucraina, aveva chiesto l’annessione alla Federazione Russa. Ecco perché ora i due confini tra Transnistria e Moldavia, e tra Transnistria e Ucraina sono diventati molto “caldi”: sono stati segnalati spostamenti di truppe moldave verso il confine, oltre a spostamenti di forze russe, le quali sono presenti in Transnistria dal 1992.
Una presenza giustificata dal mantenimento della pace, ottenuta dopo una guerra sviluppatasi proprio nel 1992 in conseguenza all’autodichiarazione d’indipendenza della Transnistria del 1990 e terminata con un cessate il fuoco garantito da una commissione congiunta tra Russia, Moldavia e Transnistria. Venne stabilito, tra l’altro, la creazione di una zona demilitarizzata tra Moldavia e Transnistria. E da allora, in Transnistria (ufficialmente Repubblica Moldava di Pridniestrov) è presente una forza militare russa di interposizione. Ora anch’essa strategica.