L’appuntamento di questo mese per la rubrica “Dalla parte di Lei” è dedicato a Maria Maddalena Rossi, una delle 21 madri della Costituzione eletta il 2 giugno 1946 nella Costituente (21 donne su 556 componenti). Fu nominata, insieme a Maria De Unterrichter, nella Commissione dei Trattati Internazionali: due donne su 40 componenti. Altre cinque donne fecero parte dei 75 componenti per la scrittura della Costituzione.Il profilo di Maria Maddalena Rossi è curato da Elisa Signori che ne racconta la storia, l’impegno civile e politico durante il ventennio, nella Resistenza in parlamento fino al 1963 e sempre “Dalla parte di Lei”.
Per sottolinearne il talento eccentrico per quel tempo l’ha definita: “Una chimica nel laboratorio della politica italiana”. Ce ne sarebbe bisogno anche oggi..Elisa Signori è Presidente di Articolo21 Lombardia, direttora dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. È stata professoressa di storia contemporanea presso l’Università di Pavia. (MGG)
Un volto di giovane donna tra le volute azzurre di una sigaretta. E’ il soggetto di un quadro di Guttuso del 1958 dal titolo Ragazza al bar. Giocato sui toni dell’azzurro, del grigio e del marrone, con una lama di luce sugli zigomi e sulle dita a V che tengono la sigaretta, mi pare rappresenti simbolicamente i caratteri di una femminilità nuova, spigliata e consapevole, di una bellezza spontanea e senza vezzi, anni Cinquanta appunto. E’il pezzo che preferisco nella raccolta d’arte, quasi tutta figurativa, che Maria Maddalena Rossi ha lasciato al suo comune di nascita, Codevilla, in provincia di Pavia, sulle prime colline dell’Oltrepò. Non mancano certo altri quadri “programmatici” nella collezione, specchio rivelatore dei gusti ma anche dei convincimenti della Rossi, sia per il soggetto, ad esempio la Madre di partigiano del 1965, di Gabriele Mucchi, sia per la personalità degli artisti, alcuni dei quali come Aligi Sassu antifascisti militanti e impegnati come Guttuso nell’estetica di un realismo popolare e antiaccademico.
Eppure quella Ragazza al bar mi sembra l’immagine più consona a riassumere le novità di una stagione di travagliato ma epocale cambiamento nella condizione femminile, di cui Maria Maddalena Rossi fu fautrice e protagonista, alla Costituente, nel Parlamento, nell’Unione Donne Italiane, come militante del Pci e come avveduta amministratrice e sindaca di Portovenere.
Seguire qualche segmento di questa lunga e operosa esperienza, ovviamente senza l’intento celebrativo di disegnare un medaglione edificante, ci consente di cogliere alcuni aspetti del rapporto accidentato tra donne e politica nella storia del nostro paese, ancora oggi «democrazia incompiuta», tanto per la persistente difficoltà delle donne nell’accesso ai ruoli apicali nel mondo delle professioni, del lavoro e dell’economia, quanto per la loro ancora irrisolta marginalità nelle istituzioni e nelle rappresentanze politiche.
Va detto preliminarmente che gli stereotipi non si confanno alla biografia della Rossi: approda al comunismo nel 1937, senza le stigmate dell’origine operaia e proletaria, la sua è infatti una “buona famiglia” di piccola borghesia di provincia. Né si può ipotizzare al proposito un’influenza antifascista respirata in casa, con padre, fratelli o amici oppositori del regime. Quando leggiamo i dossier intestati dalla polizia politica a donne antifasciste, i funzionari biografi, ciechi e sordi di fronte all’impegno femminile fuori dalle mura domestiche, ne spiegano la partecipazione ad attività cospirative come eterodiretta, ossia effetto del “traviamento” indotto da congiunti o “amanti” maschi, i soli capaci e responsabili di attitudini politiche devianti. Sfugge loro il fenomeno di una identità politica femminile autonoma. E proprio il caso di Maria Maddalena Rossi appare in tal senso un’anomalia: il tempo della scelta giunge per lei a 31 anni d’età, dopo aver percorso un buon tratto di strada nella società irreggimentata dal fascismo e averne variamente saggiato ambienti diversi, dall’università all’industria, fino a concepire una vera e propria alterità nei confronti dei valori e dei modelli comportamentali imposti nell’Italia di Mussolini.
La svolta, operata con matura consapevolezza, si tradusse in attività concrete, anzitutto nel Soccorso rosso internazionale, la rete di assistenza ai militanti comunisti perseguitati e alle loro famiglie. Perseguitata diventò peraltro la stessa Rossi nel 1942, quando sfollata a Bergamo, sperimentò l’arbitrio dell’arresto e l’invio al confino di polizia scontato poi a Sant’Angelo in Vado nell’alta valle del Metauro, alle pendici dell’appennino marchigiano. Riconosciuta come un avversario politico, la Rossi fu infatti una dei 12.230 sudditi italiani che subirono, senza passare per un processo, questa particolare condanna inflitta da una commissione amministrativa provinciale: era una condanna a porte chiuse, senza imputazione, senza diritto di difesa, senza obbligo di prova, senza durata certa della pena e inaugurava la detenzione in una «prigione a cielo aperto», così sono state suggestivamente definite queste colonie penali. Volto a ridurre al silenzio, a mettere fuori gioco i veri o presunti oppositori e ad azzerare ogni manifestazione di dissenso, il sistema confinario, connotato da una pratica quotidiana di vessazioni, abusi e punizioni è uno degli aspetti più illuminanti della distruzione fascista dello Stato di diritto. Chi, come Silvio Berlusconi, ne parlò come di una vacanza a spese dello Stato dimostrava il suo deficit di informazione storica e poteva solo compiacersi di vivere in un contesto di tutt’altra civiltà giuridica.
La Rossi ritornò in libertà grazie alla crisi del regime, nel luglio 1943, e imboccò poi la strada dell’esilio in Svizzera a Zurigo, sempre clandestinamente attiva nel contesto delle iniziative dei rifugiati antifascisti e comunisti. In Svizzera intraprese anche un’attività giornalistica che sarebbe poi diventata nel dopoguerra uno degli assi portanti del suo impegno pubblico, nella redazione de “L’Unità”, nell’ufficio stampa del suo partito e nella collaborazione ad altre testate comuniste, come “Noi Donne” e “Vie Nuove” .
Un’altra anomalia nel profilo di Maria Maddalena Rossi è costituita dalla sua preparazione scientifica e professionale: è infatti una delle 78 donne iscrittesi nel 1925 a Chimica farmaceutica all’università di Pavia ,ove si laureò nel 1929 insieme ad altre non molte colleghe, 13 in tutto.
La sua vocazione politica non ha dunque radici in una formazione umanistica, come in alcune delle donne elette alla Costituente. Nella sparuta pattuglia delle 21 costituenti – meno del 4% sul totale dei 556 membri eletti all’Assemblea -, che pionieristicamente aprì la strada all’impegno femminile nel parlamento della repubblica, un titolo di laurea era già un connotato tutt’altro che comune, ma per lo più risultava conseguito a Lettere come nel caso di Nilde Iotti o a Filosofia come in quelli di Bianca Bianchi, di Elisabetta Conci e di Laura Bianchi.
Conseguita la laurea, la traiettoria professionale di Maria Maddalena Rossi intersecò inoltre territori poco consueti nel curriculum di chi sarebbe diventata una «signora della politica italiana», deputata comunista per le prime tre legislature repubblicane dal 1948 fino al 1963, presidente dell’UDI dal 1947 al 1956.
Conclusi gli studi universitari Maria Maddalena Rossi lavorò e poi diresse farmacie in diverse località prima di essere assunta alla Zambeletti, una delle principali aziende farmaceutiche italiane.
Di questa esperienza troviamo un’eco precisa in un articolo del 1947, apparso nel numero di “Vie nuove” dedicato all’8 marzo e provocatoriamente intitolato Non fanno solo la calza. L’autrice, che si sarebbe poi sempre battuta per sgombrare il campo dai molti ostacoli che precludevano l’accesso delle donne alle professioni, sottolinea quanto faticosa fosse la conquista della parità tra i sessi e come tra i principi fissati negli articoli della Costituzione e la realtà esistesse uno iato profondo. L’asimmetria tra i due sessi nella scelta dei curricula universitari era conseguenza diretta non tanto di una diversità nelle vocazioni e negli interessi delle studentesse quanto delle realistiche aspettative occupazionali su cui esse potevano contare: questa era la ragione dell’alta frequenza alle facoltà che aprivano la prospettiva dell’insegnamento, mentre poche si iscrivevano a ingegneria o architettura che non promettevano spazi per laureate donne. «Una delle facoltà frequentata dalle donne – osserva Rossi- è oggi quella della chimica. Migliaia di dottoresse in chimica popolano oggi i laboratori» dell’industria chimica. Ma la realtà della loro esperienza era sconfortante per l’umiliante subalternità in cui erano relegate: «costantemente escluse da compiti di direzione, […] adibite all’applicazione pratica di ricerche e studi compiuti da altri, nei laboratori d’analisi compiono sempre lo stesso lavoro, tanto monotono da divenire meccanico» e tuttavia erano ricercate nelle aziende perché retribuite in misura assai modesta. Gli stessi ruoli erano riservati alle donne nella ricerca scientifica: collaboratrici ed esecutrici chiamate a un «lavoro paziente e oscuro» erano elementi «preziosi ma sempre di secondo piano», tal che per loro « la cattedra è un miraggio irraggiungibile, anche senza limitazioni di legge». «Mancano alle donne – si domanda la Rossi- le capacità per assolvere a compiti di direzione? E’ una leggenda sfatata giorno per giorno, in realtà esse hanno bisogno soltanto che la lotta per il rinnovamento della società si sviluppi nel senso di modernizzarla, di farla progredire sulle vie ampie e maestre in fondo alle quali appaiono possibili per tutti le più ardite conquiste».
Emerge qui in piena luce la consapevolezza che non sarebbero bastati gli articoli 3,37,48 e 51 della Costituzione ad innestare la parità dei sessi nella società italiana, se non si fosse realizzata una autentica svolta culturale che facesse giustizia di luoghi comuni e pregiudizi. La cittadinanza femminile, malgrado l’accesso al voto ottenuto nel 1946, sarebbe divenuta piena e effettiva solo nel futuro che Rossi e altre colleghe anticipavano con battaglieri interventi, tra l’altro sperimentando tra loro alleanze, sinergie e dialogo al di sopra degli steccati di partito. E’ il caso, per esempio, dell’appassionata difesa del diritto delle donne all’esercizio della magistratura in cui si trovarono fianco a fianco la comunista Rossi e la democristiana Maria Federici.
Del resto, come dimenticare che a frenare ogni avanzamento nella lunga marcia della cittadinanza femminile stavano le norme sempre in vigore del Codice Civile del 1942, di genuina ispirazione fascista, e il Codice Rocco, di proverbiale longevità nell’Italia repubblicana, entrambi ancorati a una visione retriva della funzione della donna nella società. Furono Maria Maddalena Rossi, Lina Merlin, Tina Anselmi, Nilde Iotti e molte altre deputate ad appellarsi alla Costituzione per sottolinearne le contraddizioni con l’impianto giuridico vigente e a far leva su quelle contraddizioni per denunciare situazioni concrete in stridente contrasto con i valori e i principi ispiratori della carta fondativa della repubblica.
Straordinariamente ampio è il ventaglio dei temi su cui la deputata Rossi si impegnò, dalla tutela dei figli illegittimi e delle madri nubili, reietti entro la società perbenista, al pauperismo delle popolazioni del Cassinate e del Frusinate devastati dalla guerra, ai diversi aspetti del diritto di famiglia, fino alle tematiche di politica internazionale nel contesto della Guerra fredda, a partire dalla discussione dei trattati di pace per arrivare ai primi passi dell’integrazione europea.
In tutti questi diversi ambiti Rossi fu un’interprete ortodossa della linea del partito, nella quale si riconobbe senza pentimenti, nemmeno all’epoca dei fatti di Budapest nel’56, adattandosi disciplinatamente a non contestare la visione tradizionalista, ristretta e persino bigotta dell’identità femminile, che il Pci con prudenza sostenne negli anni del dopoguerra, applicandola ai comportamenti privati, a quelli pubblici e alla vita interna del partito.. Ma entro i binari di un’accettazione mai smentita, Rossi seppe affrontare con coraggio alcuni temi decisamente scandalosi e pur senza vestire i panni di un femminismo agguerrito, pose la condizione delle italiane al cuore del suo impegno politico, scelse di stare «dalla parte di lei», come recita il titolo di questa rubrica. Una spia della modernità del suo pensiero si coglie nella difesa della sua personale indipendenza esplicitata, ad esempio, dal non assumere accanto al proprio il cognome del marito, così come previsto dall’allora vigente diritto di famiglia. Beninteso senza che ciò fosse in contrasto con la felice unione vissuta con Antonio Semproni, pure lui chimico, comunista, appassionato collezionista d’arte, primo artefice della raccolta di quadri che oggi ammiriamo a Codevilla.
Tra i temi affrontati dalla Rossi nelle discussioni parlamentari conviene riservare almeno un cenno a quello più scabroso, sia perché attinente alla sfera del corpo e del sesso, rigorosamente tabù nel costume dell’epoca, sia perché politicamente scomodo, ossia rivelatore di una pagina oscura e disonorevole nell’epopea delle forze alleate in guerra contro il nazifascismo. Una sua interrogazione alla Camera nel 1952 sollevò il velo della reticenza e della rimozione sulle gesta barbariche dei goumiers, i soldati coloniali, per lo più marocchini, inquadrati nelle truppe francesi che, risalendo la penisola con le forze anglo-americane tra l’aprile e il giugno del 1944 si resero responsabili di crimini di guerra contro la popolazione civile, alimentando una casistica di stupri, assassinii, saccheggi e violenze ancora oggi solo in parte nota.
Con uno stile comunicativo sobrio e lineare, ma capace di efficaci impennate di indignazione, l’interrogante denunciò i ritardi e le manchevolezze dell’assistenza pubblica verso le vittime, illustrò i drammi delle donne violate, trinceratesi spesso in un silenzio fatto di vergogna e di sofferenza, e delle comunità paesane ferite da brutalità e eccidi, scelse alcune vicende esemplari citando nomi e cognomi, descrisse la prima «singolare» manifestazione tenutasi a Pontecorvo nell’ottobre 1951 con la partecipazione dei rappresentanti delle famiglie in lutto, delle « donne vecchie, anzi , vecchissime» e delle giovinette calpestate nella loro dignità, un convegno conclusosi con una serie di richieste d’aiuto rivolte alle autorità. Il verbale della seduta notturna della Camera il 7 aprile 1952 ci trasmette il pathos e la tensione di un’accorata requisitoria, fondata sugli incontri della deputata con le dolenti vittime di quella storia e sui racconti raccolti dal vivo.
Rossi concludeva: « L’infermità contratta da queste donne non è solo quella che può essere guarita con un anno o due di cure; è un’infermità che esse porteranno per tutta la vita. E perciò noi diciamo stasera al Governo: applicate pure le leggi vigenti finora non applicate o non sufficientemente applicate, ma studiate anche provvedimenti speciali per questa mutilazione orrenda che la guerra ha causato, studiate qualcosa di diverso per questo male diverso da tutti quelli pur gravi che la guerra ci ha lasciato da curare. Provvedete a concedere alle donne violentate dai marocchini uno speciale assegno vitalizio, oppure un assegno una tantum ma adeguato alla pietà che queste innocenti ci ispirano. Pensate alle giovani, alle ragazze, alla tragedia dei bambini […]. So che vi è chi si finge scandalizzato perché noi prendiamo nel Parlamento e nel Paese la difesa di queste donne. Credo piuttosto che ci si debba scandalizzare perché vi è fra noi chi vorrebbe coprire questa piaga […] con un velo di silenzio, fidando nel fatto che esse vivono lontano dalle città, in villaggi sperduti. […] Date una sistemazione adeguata a queste infelici. Ve lo chiediamo come lo chiederemmo per qualsiasi innocente vittima della guerra, ma in più con la convinzione che queste meritino speciale attenzione e aiuto dal Governo».
A risponderle fu il sottosegretario al Tesoro che, con un tono tra indulgente e paternalistico, rivendicò la puntualità del disbrigo delle pratiche e l’efficacia delle misure sanitarie adottate dal Governo. La sua era una risposta burocratica, di autodifesa della normale azione amministrativa, ma che prescindeva dalla specificità del dramma sollevato da Rossi. Tale incomprensione e mancanza di empatia venne pienamente in luce quando il sottosegretario si lasciò sfuggire un paragone tra questa casistica di violenze e quella degli incidenti stradali o ancora quella dei lutti famigliari per i caduti in guerra. Non si poteva certo risarcire tutti, si giustificava il sottosegretario. E qui Rossi sbottò : «Si vede che lei non è una donna».
La deputata non ottenne gli aiuti chiesti al Governo, ma definì con forza come un unicum quelle violenze che lasciavano ferite inguaribili. La barbarie della marocchinate avrebbe trovato nel 1957 ne La ciociara di Moravia una rappresentazione letteraria e nel volto di Sophia Loren un’icona che fece il giro del mondo. Ma un lungo cammino doveva ancora essere percorso perché con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, si affermasse il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona e non contro la morale pubblica.
La bella notizia è che, col patrocinio del Comune di Codevilla, una brava studiosa dell’Università di Pavia, Benedetta Sceresini, al lavoro sulla biografia di Maria Maddalena Rossi potrà tra breve dar conto pienamente della ricchezza e attualità di questa esperienza d’impegno alle radici della cittadinanza politica femminile nell’Italia repubblicana.