E’ di questi giorni la notizia che a Roma è andata deserta l’asta per la vendita del seicentesco Casino dell’Aurora, l’unico edificio della scomparsa Villa Ludovisi sopravvissuto alle demolizioni di fine Ottocento, e che ospita tuttora l’unico affresco attribuito al Caravaggio, oltre a opere pregevoli del Guercino.La base d’asta era di 353 milioni di euro, ma nessuno si è fatto avanti. Se ne riparlerà il 7 aprile. Forse lo Stato, attraverso il ministero dei beni culturali, farà valere il diritto di prelazione per impedire che un bene tanto prezioso vada in mano a privati che potrebbero non garantirne la conservazione. Così almeno spera l’attuale proprietaria, l’americana Rita Henriette, ex agente immobiliare, attrice, modella, vedova dal 2018 del principe Nicolo Boncompagni Ludovisi, che finora ha cercato invano un acquirente fra i suoi più ricchi amici, da Bill Gates a qualche emiro dei paesi arabi. Il Casino dell’Aurora faceva parte del grande complesso di Villa Ludovisi, forse la più bella della Roma dell’epoca, fatta costruire dal cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di papa Gregorio XV, e comprendeva un enorme giardino che occupava l’area compresa fra l’attuale via Bissolati, via Veneto, Porta Pinciana e le mura Aureliane, l’intero quartiere Ludovisi. “Non c’era nulla di più bello a Roma – commentò Henry James, lo scrittore americano che l’aveva visitata durante un soggiorno romano – I prati e i giardini sono immensi, là dentro c’è di tutto: viali oscuri sagomati da secoli con le forbici, vallette, radure, boschetti, pascoli, fontane riboccanti di calami, grandi prati fioriti, punteggiati qua e là da enormi pini obliqui”. Dello stesso parere fu Hermann Grimm, famoso storico dell’arte tedesco che non esitò a scrivere: “Se si fosse domandato qual era il più bel giardino del mondo coloro che conoscevano Roma avrebbero risposto senza esitare: Villa Ludovisi”. Una meraviglia destinata, purtroppo, ad essere distrutta: il 29 gennaio 1886 il sindaco di Roma Leopoldo Torlonia firmò la convenzione per la lottizzazione della villa con la Società Generale Immobiliare autorizzandola alla costruzione di un quartiere di grandi palazzi, alberghi e case di lusso fra via Veneto e via Boncompagni. Fu “la grande follia” che Grimm aveva temuto e che ha privato Roma di un gioiello inestimabile.
Del Casino dell’Aurora e dello scempio urbanistico dell’epoca scrive con competenza Almo Paita, autore di saggi storici, nel libro La vita quotidiana a Roma ai tempi di Gian Lorenzo Bernini, il primo della collana che il Corriere della sera ha appena inaugurato e che comprende ben 25 volumi della serie “La vita quotidiana a …” dedicati, solo per citarne qualcuno, alla Firenze dei Medici, alla Napoli di Masaniello, alla Francia di Napoleone, ai castelli della Loira nel Rinascimento, alla Grecia di Pericle e ad altri momenti topici della storia d’Italia e d’Europa. La Roma barocca dei tempi del Bernini era una città piccola e poco abitata, appena sopravvissuta al sacco dei lanzichenecchi del 1527, ma importante perché sede del papato, quindi capitale dello Stato pontificio, e anche culla della cristianità, governata dal Papa come da un occhiuto sovrano. Una città dove la vita quotidiana poteva essere piacevole per chi si poteva permettere qualche lusso ma non era certo facile per la povera gente. A scorrere le descrizioni che l’autore fa delle strade, delle case, delle cattive abitudini nella Roma papalina si nota subito quanto quella città lontana nei secoli si possa considerare molto simile alla Roma di oggi. Soprattutto nei disagi per la pur scarsa popolazione. Le strade erano strette, piene di buche, polverose d’estate fangose d’inverno, quasi tutte vicoli maleodoranti, dove la circolazione delle carrozze e dei carri era problematica per l’abitudine dei bottegai e degli artigiani di occupare lo spazio avanti alle botteghe con tavoli da lavoro e di mercanzia varia. (Oggi sono i ristoranti a esagerare con i dehors, giocando sull’equivoco delle concessioni straordinarie in seguito al coronavirus). In quelle strade spesso i pastori guidavano il loro bestiame, pecore, maiali, perfino buoi, che sporcavano e creavano confusione: oggi abbiamo i cinghiali a popolare le strade di periferia. L’autorità vaticana a stento riusciva a mettere un po’ d’ordine. Spesso erano inutili le ingiunzioni contro chi lasciava rifiuti per le strade, un male che travalica i secoli. Come pure il traffico dei veicoli, che si limitavano alle carrozze dei signori e ai carri da trasporto. E non mancavano gli incidenti, soprattutto per problemi di precedenza: per un aristocratico o un alto prelato cedere ad un incrocio il passo ad un suo simile ma di rango inferiore non era ammissibile. Negli ingorghi nascevano furibonde liti stradali, anche risse sanguinose con morti e feriti, come oggi accade quando i prepotenti al volante passano col rosso o non rispettano la precedenza.
Il problema degli alloggi era analogo a quello dei giorni nostri. Chi possedeva case grandi o interi palazzi pretendeva pigioni esosissime. Chi non aveva soldi da spendere si arrangiava nei tuguri o sotto i ponti. Anche la Roma di oggi è piena di case vuote che i proprietari non intendono mettere sul mercato degli affitti per aggirare da una parte il fisco dall’altra il rischio di inquilini non solvibili. Oggi poi abbiamo tanti poveri immigrati che vivono in condizioni penose, nonostante gli sforzi delle autorità per soccorrerli. Il problema dei furti nelle case e nei borseggi per la strada era una croce per le autorità di polizia. Allora come oggi. D’altronde la Roma del Seicento era abitata da una società multiforme, con una forte rappresentanza straniera di diplomatici e di turisti, di immigrati giornalieri, oggi diremmo frontalieri, in cerca di un lavoro quale che sia, di ecclesiastici impegnati negli affari di governo, di burocrati capitolini non meno numerosi di quanto siano ai giorni nostri.
Roma allora non aveva un sindaco ma era governata pro forma dal “Senatore”, un non romano di nomina ovviamente papale e di irrilevante autorità, per di più controllato dai “Conservatori”, cittadini romani estratti a sorte dal cardinale Camerlengo. Costoro erano assistiti dai “Fedeli” di Vitorchiano, un paesino del Viterbese che tuttora conserva il privilegio medievale di offrire a Roma un piccolo corpo di armigeri in costume michelangiolesco dotati di lunghe trombe squillanti alle odierne cerimonie ufficiali. In questo, il folklore capitolino è rimasto immutato. La burocrazia capitolina si completava con i “Caporioni”, addetti per lo più al mantenimento dell’ordine pubblico, gli odierni “pizzardoni”, e ancora oggi per dire di un “capetto” con poca autorità e molta boria i vecchi romani dicono “è un caporione”. Un problema che nella Roma del Seicento assillava le autorità erano le bande di giovani e giovanissimi sfaccendati che imperversavano nelle strade, dando luogo a disordini e atti delinquenziali contro i quali nulla potevano le rare forze dell’ordine. D’altronde le scuole praticamente non esistevano e le opere pie affidate a volenterosi sacerdoti o laici non riuscivano a togliere dalla strada ragazzi d’ambo i sessi che non trovavano (e forse nemmeno cercavano) un lavoro che li tenesse occupati. Ne seguivano furti, rapine, prostituzione, duelli, sassaiole, tutto un repertorio di violenza gratuita di cui erano vittime i passanti e i bottegai. La movida dei giorni nostri, che pure è indicativa di un problema giovanile irrisolto, allora come oggi, ha una storica origine nella Roma del papa re. E non è il solo esempio che caratterizza l’immagine della Città Eterna attraverso lo scorrere dei secoli.
In conclusione, solo la difesa dell’ambiente ci distingue dalla Roma del Seicento. Rispetto alla Roma dei Papi oggi c’è più rispetto per il patrimonio artistico. Oggi la Società Generale Immobiliare non potrebbe sventrare una Villa Ludovisi e il suo grande parco. Anche perché dopo aver spadroneggiato per oltre un secolo, diventata patrimonio del Vaticano e successivamente del bancarottiere Sindona, la SGI è miseramente fallita nel 1987, lasciandosi dietro uno strascico di polemiche legate ad alcune realizzazioni al limite del consentito, come a Roma la costruzione dell’hotel Hilton sulla sommità di Monte Mario, di alcune ville per ricchi lungo l’Appia Antica, del brutto quartiere intensivo della Balduina, delle lottizzazioni dell’Olgiata e di Casal Palocco e a Milano della criticatissima Torre Velasca, che ormai fa parte del panorama della città ma all’epoca fu fieramente vituperata (come accadde alla torre Eiffel che ai contemporanei parigini apparve come un’autentica bruttura e che oggi invece tutti ammirano).