Ricorrono, in sonnacchioso, immeritato oblio i cento anni dalla nascita di Jacques Lecoq, fra i grande maestri della mimica e pantomima del secolo scorso (insieme ai connazionali Barrault- “il surreale cavallo-centauro” amato da Artaud- e il vigorosamente liliale, poetico, possente Marcel Marceau).
Poliedrico ed eterogeneo il percorso artistico di Lecoq, di cui (su Rai play) è rintracciabile un dovizioso documentario titolato “Viaggio in Italia”). Apprendistato che ebbe inizio nel 1937 da studente di educazione fisica al Teatro di Grenoble e dal successivo insegnamento della medesima negli anni successivi al secondo conflitto.
Anno di svolta fu il 1945, allorquando il giovane, intraprendente Jacques (dopo una breve esperienza in una compagnia teatrale da lui stesso fondata) fu incaricato (dal regista Jean Dasté) di occuparsi del training, selezione ed allenamento ginnico degli attori della compagnia teatrale Comédiens de Grenoble. Circostanza che permise a Lecoq di scoprire, oltre alle movenze ‘astratte’ del Teatro No giapponese, le “maschere” del teatro antico e della Commedia dell’Art, assecondato da consigli e dalla genialità del collega Jacques Copeau. Fondamentali, in quegli anni, gli apprendimenti di antropologia di Jousse: quel ‘mimismo del gesto’ in cui Lecoq ravvede la fusione di movimento ed espressione quali “condizione primarie e peculiari” dell’azione (e della condizione) umana. Più che mai dell’attore
Era così maturata in lui l’idea (ben proficua) di trasferirsi in Italia (dal 1948).
Esperienza che ebbe per epicentro Milano e che si protrasse per quasi dieci anni, disponendosi per riprese video e cinematografiche cui dobbiamo la cospicua quantità di ‘materiali’ cui dovrà attingere chi vorrà conoscere sequenze e ‘arte del movimento’ del’eclettico interprete (che, come Buster Keaton, “mai pronunciò una battuta in scena, né vi ebbe necessità”). In Italia Lecoq approfondì i suoi studi sulla Commedia e Teatro Rinascimentale e dei Giullari, innestando un sodalizio artistico con lo scultore Amleto Sartori centrato sullo studio e il recupero delle maschere ‘terragne’ – e di lì in poi alla teorizzazione, ancora oggetto di studi, della “maschera neutra” (plasmabile secondo le necessità).
Annotava Lecoq : «Questo oggetto che si mette sul viso deve permettere a chi lo indossa di raggiungere lo stato di neutralità che precede l’azione, uno stato di ricettività riguardante ciò che ci circonda, senza conflitti interiori. Si tratta di una maschera di riferimento, una maschera di base […]. Sotto ogni maschera ne esiste una neutra che ne regge l’insieme.»
Coinvolto dal vitalismo di Strehler e Grassi, Jacques partecipò alla fondazione della Scuola del Piccolo di Milano, ove un mimo del suo calibro “andava assolutamente utilizzato e valorizzato”. E giusto sui praticabili di via Ravello, durante la messinscena della “Elettra” di Sofocle, Lecoq fu “illuminato” dalla totalità, sorgività, comune radice (mediterranea) della tragedia greca.
Ebbe cos’ inizio un lavoro di ricerca “sulle possibilità espressive e fisiche del coro all’interno di un teatro contemporaneo”. Impegni e intelletto che non impedirono al vivace artista di mettere a frutto la sua permanenza fra i Navigli frequentando i cabaret degli anni sessanta e diventando amico- sodale di Dario Fo, Giancarlo Cobelli, Giustino Durano, il gruppo dei Gufi
Dopo alcune collaborazioni con Gianfranco De Bosio (“Le lombarde”, “Porto di mare”), Lecoq lega il suo nome (per tutti gli anni sessanta) all’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa (diretto da Giusto Monaco), ove insegnerà e curerà le coreografie (fra gli altri) di “Ecuba”, “Sette contro Tebe”, “Antigone”, “Eracle”
Di rientro a Milano, d’intesa con Franco Parenti, imbastì una compagnia a loro intitolata, avendo così modo di lavorare con Luciano Berio ed Anna Magnani: sempre nel “bisogno di riscoprire un’idea dell’espressione corporea che allontanasse il gesto dalla cristallizzazione e dall’espressionismo di maniera”
Nostalgico delle ataviche radici, o probabilmente demotivato dal trascorrere del tempo, Jacques Lecoq fece rientro in Francia sin dagli anni ottanta preferendo dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Ma non negandosi ad interviste, seminari, socievoli conversazioni con giovani interpreti.
Quindi alla vita (che lo ‘ospitò sino agli 89 anni).